Cosa resta dopo
le Paralimpiadi

Dopo l’applauso, cosa resta? Bisogna domandarselo senza tanti fronzoli, ora che le luci di Tokyo e i riflettori delle Paralimpiadi si sono spenti. Bergamo s’imbarca sul volo di ritorno dal Giappone con un bagaglio storico: 9 medaglie, seconda provincia per «contributo» al medagliere dopo Milano, che è salita fino a 12. Ma se rapportassimo i risultati alla grandezza del territorio, non ci sarebbero dubbi: Bergamo è la capitale dello sport paralimpico italiano. Ma, appunto: cosa resta? Le Paralimpiadi sono da sempre accompagnate da una coda retorica inevitabile. Lo sono anche le Olimpiadi, per carità. Lo è, in fondo, ogni evento sportivo corredato da Inno nazionale, bandiera, podio, coppe al cielo, We are the Champions, lacrime. Ci sta, il racconto sportivo difficilmente fugge da questo rischio.

Però, alle Paralimpiadi vanno persone, e queste persone avrebbero diritto, al di là delle belle teorie, degli applausi e di tutta una normalità «apparente» che sa un po’ di cartapesta mediatica, avrebbero diritto a essere trattate veramente per quel che sono. Atleti che per raggiungere i loro risultati si allenano, si sacrificano, faticano, sudano, sbagliano e ripartono esattamente come i loro colleghi delle Olimpiadi. Allora, domanda numero 1: perché vengono pagati la metà? Domanda numero 2: perché prima le Olimpiadi e poi le Paralimpiadi? Perché non tutto insieme, persone con persone, atleti con atleti, gare con gare? Ovvio che non stiamo dicendo che Martina Caironi debba correre gli stessi 100 metri di Elaine Thompson, ma perché insistere tanto con questa separazione di fatto, che poi si cerca di attenuare, appunto, con un surplus di retorica, di sorrisini di circostanza, di tanta compassione perché loro, in fondo, sono i poverini che cercano nello sport la loro rivincita su una vita sfortunata?

Invece, purtroppo, sappiamo bene come finirà anche questa volta. Ricevimenti in pompa magna, medaglie. Poi, arrivederci a Parigi, alla prossima passerella che questi fantastici atleti possono godersi una volta ogni quattro anni. Stavolta, peraltro, con la beffa ulteriore del Covid, che ha vuotato gli stadi giapponesi regalando loro una gioia nel deserto, un’impresa al cospetto di una marea di seggiolini vuoti, mentre altrove nel mondo stadi e palazzetti riprendono via via a popolarsi, anche se con regole e distanziamenti diversissimi tra loro. Una riflessione su questi temi s’imporrebbe proprio sul piano sportivo e agonistico, mentre «purtroppo» le Paralimpiadi continuano a essere raccontate più per le storie pregresse degli atleti che per le imprese portate a termine. Inevitabile, certo, ma è proprio quel tipo di retorica a «confinare» gli atleti più dentro le loro vicende personali che non, come meriterebbero, nella loro vera dimensione sportiva, in quella rivincita che non cercano, ma hanno già trovato nel momento in cui sbarcano in un evento a cinque cerchi.

Resta, infine, una riflessione sul movimento paralimpico italiano. Che vive di realtà eccezionali, alimentate per lo più dalla «provincia». Guardate la classifica di pagina 39. Ripassiamo le prime 10 posizioni, che vanno dalle 12 medaglie di Milano alle 3 di Venezia. Milano, Bergamo, Torino, Verona, Padova, Palermo, Bari, Udine, Pavia, Venezia. Solo cinque capoluoghi di regione, e Roma che chiude tristemente la classifica con una sola medaglia portata a casa. Il senso andrebbe forse ricercato nella più spiccata capacità di inclusione delle realtà più piccole rispetto alle grandi città, e ci sta. Ma certo fa sensazione vedere realtà come Bologna, Roma e Napoli praticamente assenti dal medagliere. Finiti gli applausi e spenti i riflettori, qualche ragionamento dalle parti di Cip e Coni sarebbe forse necessario, anche dentro un successo eccezionale come quello di Tokyo 2020.

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