Crisi bancarie diverse, resta il dilemma inflazione

Il commento. Credit Suisse e Silicon Valley Bank sono storie molto diverse. Le accomuna il momento della scoppio della crisi, ma poco altro. Certo, due detonatori simultanei nel panorama bancario mondiale sono più che il doppio del pericolo. Tecnicamente non ci sarebbe motivo di temere alcun contagio sul sistema bancario europeo e italiano. Ma il contagio si diffonde per motivi non razionali e quindi è un fenomeno difficilmente prevedibile.

Ecco perché le banche italiane stanno soffrendo in Borsa più di quanto l’esposizione diretta a quegli eventi giustificherebbe. Ma veniamo alle differenze fra i casi americano e svizzero. Negli Stati Uniti hanno chiuso i battenti tre banche di media dimensione: Silicon Valley Bank, Signature Bank e Silvergate Bank. Tutte e tre giovani, costituite fra il 1983 e il 2011, attive in settori molto particolari come le start up tecnologiche californiane e le criptovalute. Hanno ampiamente sfruttato l’enorme creazione di moneta di questi ultimi lustri, correndo velocemente e profittevolmente sull’onda della liquidità come provetti surfisti californiani. Ricevere liquidità a zero dalla Banca Centrale e investirla in titoli di Stato americani a lunghissima scadenza era un gioco facile e lucroso, apparentemente senza rischi. Questi margini potevano essere impiegati in altre forme di attività più vicine all’economia reale.

Nel 2022 la SVB ha guadagnato il 12% sul capitale proprio (le maggiori banche italiane intorno all’8%). Poi la Fed ha invertito la marcia. Troppo repentinamente? Forse sì, ma prima o poi doveva accadere. Venuta meno la copertura del denaro abbondante e gratuito, è emersa l’eccessiva assunzione di rischio di tasso e di liquidità. Un allargamento del problema non è da escludere, perché le tre banche oggi in crisi non sono modelli unici nel panorama americano. Lo si è visto dal calo in Borsa di altri intermediari simili. Il loro modello di business è comune ad altre banche di media dimensione, su cui i controlli non sono più di competenza della Fed ma sono demandati a un’agenzia più o meno equivalente al nostro Fondo di tutela dei depositanti.

Credit Suisse è un animale diverso. Fondato nel 1856, è sempre stata un’istituzione finanziaria prestigiosa, una delle storiche casseforti di tutto il mondo. Da qualche tempo però navigava in acque agitate: coinvolgimento in scandali finanziari e situazioni poco chiare, episodi di infedeltà dei dipendenti, falle nei sistemi di controllo interni. È stato predisposto un piano di ristrutturazione e di rilancio su un arco triennale che prevedeva anche un rafforzamento patrimoniale. Sono intervenuti importanti investitori sauditi. Ma la situazione non è migliorata e i nuovi soci hanno manifestato proprio ieri l’intenzione di non sostenere più la banca. Di qui la caduta del titolo in Borsa. Dunque il problema affonda le sue radici in una condizione individuale, resa forse più difficile dal contesto internazionale e dal nuovo orientamento della politica monetaria. Gli altri colossi svizzeri non stanno vacillando.

Il rientro dalla politica monetaria iperespansiva è difficile, sia per l’economia reale sia per le banche. Al dilemma fra contrasto all’inflazione e crescita economica, si aggiunge il tema di non minare la stabilità del sistema finanziario. Molti ritengono necessario rallentare l’aumento dei tassi di interesse, privilegiando la produzione e la tenuta dei bilanci bancari a scapito dell’andamento dei prezzi, che comunque colpisce le famiglie e le imprese più fragili. Bisogna scegliere il male minore, ma è proprio su questo che si dividono i giudizi.

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