Dopo Trump resta viva
l’identità sovranista

Il sovranismo, cifra identitaria della destra del nuovo millennio, ha ricevuto un brutto colpo con la caduta di Trump. Quattro anni fa la sua vittoria aveva incoraggiato in tutto l’Occidente un moto di replicazione di quel modello. È ovvio che ora la sua sconfitta faccia perdere vigore e slancio alla causa del sovranismo mondiale che, tuttavia, difficilmente perderà le sue ragioni d’essere. Già quella di Trump pare, più che una resa senza scampo, una sconfitta vincente. Pur gambizzato dal Covid, è riuscito a realizzare uno dei migliori risultati elettorali della destra statunitense e, senza il terremoto dell’epidemia, la sua gestione dell’economia gli stava garantendo una sicura riconferma.

Basta questo a dimostrare come la sua presidenza non possa essere considerata un incidente di percorso del conservatorismo tradizionale, una parentesi destinata a chiudersi senza alterare i tratti di fondo della destra americana. In men che non si dica e contro le resistenze di tutto l’apparato repubblicano, Trump è riuscito con sorprendente facilità a impadronirsi del partito e soprattutto a forgiare un suo popolo con cui ha stretto un saldo rapporto di fiducia e un sostegno per certi versi entusiastico. Lo ha potuto fare perché ha saputo cogliere le trasformazioni profonde di una società che ha perso la sicurezza di uno sviluppo certo e continuo, com’è stato grosso modo per il primo cinquantennio del dopoguerra.

La destra tradizionalista si è erta per tutta questa stagione di florido sviluppo a difesa di un ordine economico e morale che faceva del liberismo economico il suo vangelo e delle classi alte il suo punto di forza. Questi tempi sono finiti. Le classi alte sono divenute mondialiste e internazionali. Già con Reagan, ma con Trump in modo più radicale, la destra americana è diventata il partito dei lavoratori a basso reddito, degli operai minacciati dalla perdita del posto di lavoro per la concorrenza dei lavoratori delle nazioni emergenti, del ceto medio impoverito. La globalizzazione imperante ha scavato una fossa tra i destini dei ceti vincenti e dei perdenti. Si è aperta con ciò una fossa nel tessuto sociale dei vari Paesi occidentali, che ha contribuito a reinnestare una salda contrapposizione tra destra e sinistra, quale da tempo non era più sembrata agli occhi dell’elettorato. Alle novità intervenute sul piano sociologico e politico, c’è un ultimo elemento che ha conferito identità e forza alla destra sovranista: la riscoperta dell’idea di nazione. Non è più un nazionalismo aggressivo, ma difensivo. Non cerca riscatti fuori dai confini ma uno scudo di difesa dalle minacce del mondo esterno, non solo dalle minacce economiche ma anche dagli attacchi portati alla sua cultura e persino alla sua religione. Lo scacco subìto dal sovranismo nella nazione più potente del mondo richiederà certo alla destra statunitense un serio aggiustamento delle sue strategie e, forse, persino della sua leadership. Le conseguenze saranno a cascata. Non mancheranno di investire il nostro Paese, dove la componente sovranista è maggioritaria ma non ancora egemone. I democratici, partendo da Biden, non devono, però, incorrere nell’errore di coltivare l’illusione che i giochi siano fatti. Il mainstream occidentale ha sempre nutrito un complesso di superiorità nei confronti della destra, liquidata ora come reazionaria, ora come nemica della società dei diritti, quando non ostile all’ordinamento democratico. Questo complesso di superiorità l’ha portata spesso, invece che a elaborare una strategia di contrasto efficace, a rifugiarsi nella lamentazione sulla mancanza di una vera destra moderata e liberale, quasi che in politica si potesse pretendere i rivali che più ci accomodano.

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