Draghi l’incompreso, ma apprezzato all’estero. Gli interessi di parte

A Mario Draghi è bastato il penultimatum di una rappresentanza partitica per rassegnare le dimissioni. Permaloso? Può essere. Un impolitico, una sorta di Mario Monti con meno alterigia e un pizzico di simpatia in più, verrebbe da dire. E sarebbe così per un normale ex banchiere centrale senza il curriculum dell’attuale presidente del Consiglio italiano. Solo chi non ha vissuto le tribolazioni della Banca centrale europea e la campagna denigratoria subita per otto anni sulle sponde del Meno può parlare di inesperienza politica.

In quella che i tedeschi consideravano la divisione europea della Bundesbank, Draghi ha detto testualmente: la Germania deve capire che in Europa ci sono anche gli interessi degli altri Paesi. Ed era l’esatto opposto di quello che i padroni di casa si aspettavano. Alla fine ha vinto lui con molte ferite ma l’euro è rimasto. A Berlino e Francoforte sanno che senza forza politica di convincimento non si vincono battaglie nella Bce. Ed è per questo che nei consessi internazionali gode di così tanto prestigio. Uno che conosce economia e finanza come pochi altri e li unisce in un disegno politico è una risorsa. Guardiamo a Macron e ci ritroviamo il tecnocrate, guardiamo a Scholz a Berlino e abbiamo l’uomo di partito, guardiamo a Biden e abbiamo il politico che ha fatto il suo tempo.

Un presidente del Consiglio che rinuncia allo stipendio, offre la sua immagine e reputazione a tutela di un’Italia vulnerabile è ammirato anche dai suoi detrattori. Solo la politica italiana sembra non capirlo. Intendiamoci, i partiti fanno il loro mestiere e cercano voti e potere. Ma c’è un punto dirimente che distingue la democrazia parlamentare: quando il bene generale è a rischio, l’interesse di parte si ferma un minuto prima. In Italia un principio che fatica ad affermarsi. La variante italiana è che il programma conta ma poi contano ancor di più i rapporti con il potere e con chi lo gestisce. Se Draghi si fosse reso disponibile ai desiderata dei vari capi partito, ne avesse esaltato non tanto il ruolo istituzionale ma le aspettative legate al loro ego di certo sarebbe al Quirinale. Ovunque vi è lotta per il comando. Ma poi stabilito un programma scatta la responsabilità nel tener fede all’impegno preso. In Germania nel 2017, l’ultimo governo Merkel, hanno impiegato sei mesi per redigere un programma di governo. Una volta redatto però poi nessuno lo mette in discussione. Parola è parola anche per l’elettore. L’ex presidente della Bce ha lottato contro il prepotere tedesco ma viene da quella scuola. Si chiama orientamento alla cosa. Per gli anglosassoni pragmatismo, ci si muove secondo le condizioni date, ci si adatta, si cambiano le tattiche ma resta fermo l’obiettivo concordato.

Per l’Italia e i Paesi mediterranei il rapporto è bipolare da soggetto a soggetto. Lo stato d’animo incide ed è una variabile indipendente. Se i due interlocutori si piacciono tutto fila liscio, se non scatta l’empatia o la simpatia il business ne può risentire nella sua potenzialità. Fino al punto di rompere accordi già presi. E questo ancor più nella politica dove il rapporto non è costretto da vincoli giuridici formali. Draghi ha portato nel mondo politico romano un elemento nuovo: la terzietà. Vuol dire questo: oltre alle persone c’è l’oggetto. Ci si siede attorno ad un tavolo, si lavora ad un problema, si ascoltano le richieste dei partecipanti, le si coniuga con l’obiettivo stabilito. Tutti esprimono la loro opinione e danno un giudizio. Se è sì, a quel punto la parola è al programma. La responsabilità viene da qui, dalla cura dell’oggetto. Se vogliamo accedere ai finanziamenti del Pnrr c’è bisogno di stabilità politica. Questo è l’obiettivo del governo in carica. Ma per la politica italiana la responsabilità la si misura solo in relazione alle esigenze elettorali. Ecco perché Draghi sulla scena politica mondiale è un protagonista e a Roma un marziano.

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