È ora che l’Ue si sappia difendere da sola

IL COMMENTO. L’Europa, bella addormentata nel bosco, è stata risvegliata. Non da un principe azzurro ma da Donald Trump. E non con l’intenzione di portarla all’altare per poi vivere insieme felici e contenti, ma per piegarla ai suoi desideri, disposto a tutto, anche a minacciarla di farla finire tra le grinfie dell’amico Putin. Siamo avvisati.

Con Trump, in corsa per le presidenziali, lo zio Tom non è disposto a spendere un solo dollaro per la nostra difesa, a meno che non ci decidiamo a fare la nostra parte nella Nato, sforando la soglia del 2% per le spese militari. Con la sua solita brutalità, il tycoon d’America - come del resto, prima di lui, il democratico Obama - dice una verità. Non s’è mai visto uno Stato sovrano che affidi la propria integrità a una potenza straniera. Insomma, è venuto il tempo per l’Europa, come per ogni persona che entra nella maggiore età, di assumere le proprie responsabilità. Non sarà uno Stato, sarà pur sempre un organismo politico istituzionalmente anomalo, ma non può restare in questa condizione di gigante economico e di nano politico.

La Ue può diventare Stato ad una condizione: deve assumere il potere che gli è imprescindibile: il monopolio della violenza, che solo un vero esercito può intestarsi. È un salto di qualità, quello del passaggio da un’unione economica ad una politica che l’Europa non ha mai nemmeno tentato di compiere.

Pesa troppo il retaggio di storie nazionali separate, spesso nemiche, perché il superamento delle sovranità nazionali in una aggregazione continentale possa compiersi. È anche vero, però, che i grandi cambiamenti storici, impossibili da effettuare in tempi normali, possono diventare realizzabili in momenti di emergenza. Ebbene, di una situazione di emergenza si può a buon titolo parlare oggi. Non solo perché l’America minaccia di lasciarci soli, ma perché guerre vicine ci chiamano a scelte cui è impossibile sfuggire. L’aggressione russa all’Ucraina, unita alla minaccia - nemmeno troppo velata - di Putin di riformare il vecchio Stato imperiale, prima zarista e poi bolscevico, ha già messo in allarme le cancellerie europee, a cominciare da quelle dei Paesi confinanti con la Russia.

Finlandia, Polonia, Slovacchia, Romania, anche l’Ungheria dell’amico di Putin, Orban, sono Paesi che hanno già superato la soglia del 2% di investimenti in armi. La Germania, che pure ha impostato fino a ieri la sua politica economica su una partnership strategica con la Russia, ha già messo in cantiere la più grande fabbrica di armamenti d’Europa che nell’arco di un anno raggiungerà la produzione di due milioni di proiettili, sufficienti non solo per il proprio armamento, ma anche per quegli Stati europei che ne facessero richiesta.

La stessa nostra Italia, così convintamente avversa ad ogni impegno militare che non sia di peacekeeping, s’è sentita in dovere di unirsi a Francia e Germania per proteggere nel Mar Rosso i propri mercantili dal terrorismo degli Houthi. Un intervento – si badi bene - che non esclude l’uso delle armi. Sarebbe la prima volta che l’Italia combatte dopo la seconda guerra mondiale, seppure solo per difendersi da un’aggressione. Ma qui sta il quesito su cui l’opinione pubblica italiana è chiamata ad esprimersi, sempre che non ritenga il pacifismo una rinuncia a priori, tassativa all’uso delle armi, e invece pensi che la pace non sia un moto dello spirito ma una condizione che va costruita e difesa anche, anzi spesso solo, con la deterrenza delle armi.

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