Finito il mondo globale?
No, però va corretto

La globalizzazione è finita», parola di Donald Trump. La domanda che adesso ci si pone è se questa del presidente americano sia una boutade da campagna elettorale oppure il mondo sia realmente a un punto di svolta. La pandemia con in grembo pessime conseguenze economico-finanziarie potrebbe essere il classico spunto o peggio «casus belli» per giustificare scelte clamorose o epocali. Premettendo che lo scontro tra Stati Uniti e Cina sta assumendo un carattere planetario e per la prima volta l’America vede in pericolo il suo primato, è palese che sia necessario correggere le distorsioni dell’attuale modello economico e di sviluppo. Senza perderci in disquisizioni ecologiste - l’Unione europea ha appena approvato la sua rivoluzione «verde» - e non ripetendo i soliti concetti di precarietà del lavoro per l’iperconcorrenzialità in una realtà senza confini collegata per 24 ore, i Paesi maggiormente industrializzati stanno vivendo un periodo della globalizzazione non così conveniente come quelli del passato.

Un periodo anche pericoloso per le frequenti crisi o bolle (2001, 2008, 2020) e per le troppe ricchezze finite nei forzieri di Stati con valori diversi da quelli occidentali. Questi capitali spesso sono poi utilizzati in funzione anti-occidentale. Ma non solo. L’incredibile vicenda delle mascherine introvabili - poiché, in pratica, prodotte soltanto in Cina - ha evidenziato ancora di più l’esigenza di mantenere il controllo di produzioni strategiche (o a loro riconducibili) anche se economicamente in perdita. Il profitto non potrà essere in futuro l’esclusivo metro di giudizio. La comunità internazionale appare pertanto muovere i primi passi nella terza fase della seconda globalizzazione i cui contorni non sono ancora chiari.

Sfogliando i libri di storia, si scopre che la prima globalizzazione si sviluppò tra il 1870 ed il 1914; la seconda dal 1945 ad oggi con il 1971 (la fine del sistema di Bretton Woods) a fare da spartiacque. Tra le due Guerre protezionismo e depressione la fecero da padrone. Caratteristiche comuni delle due globalizzazioni sono l’intensità degli scambi commerciali rinvigoriti dall’abbattimento delle tariffe, l’importante domanda di beni e servizi, i forti flussi finanziari (anche migratori) e l’innovazione tecnologica.

Dopo la guerra dei dazi - con l’Europa preoccupata osservatrice - gli Stati Uniti metteranno ora in cura dimagrante la Cina, Paese esportatore netto: limiteranno gli investimenti diretti nell’«Impero celeste», ridurranno la sua capacità di raccolta di capitali sui mercati, rallenteranno il suo sviluppo tecnologico. E chissà, sfruttando la scusa dell’incidente nel laboratorio di Wuhan (ancora da dimostrare) o «l’incompetenza» cinese nel fermare il Covid-19, potrebbero tentare di mettere le mani sulla «cassa», multando Pechino giocando la carta dei tribunali. Gli attuali piani di «soldi a pioggia» dagli Usa all’Europa servono anche per mantenere viva la domanda di beni e servizi per non piombare in recessione, o peggio depressione, e per schivare il riemergere dello statalismo. Se questo rischioso momento di passaggio, irto di insicurezze, verrà superato si tenterà di rallentare i ritmi, di migliorare la qualità della vita e di modificare il modello di sviluppo.

L’influenza visibile sul quotidiano sarà sensibile: telelavoro (in Usa esiste da un decennio) con svuotamento dei centri cittadini, ulteriore specializzazione della forza lavoro, più informatizzazione ma merci più care, problemi di privacy, alti costi del trasporto aereo. Non sarà, però, una passeggiata breve.

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