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MONDO. Ci risiamo: sgarbo dopo sgarbo. Il premier francese Bayrou, restituendo la pariglia a Salvini, ha accusato l’Italia di fare dumping sociale, mettendo nel mirino lo schema di flat tax per i milionari che trasferiscono la residenza nel nostro Paese, svuotando così la Francia dei suoi contribuenti più facoltosi.
Il leader centrista d’Oltralpe, in pratica, ha istituzionalizzato ciò che alcuni giornali avevano già descritto: il «Financial Times» s’era spinto sino a descrivere Milano la nuova Mecca europea dei Paperoni e, per il conservatore «Le Figaro», l’Italia sarebbe «l’Eldorado degli esiliati fiscali francesi». Il nuovo capitolo di questa guerriglia verbale giunge da un governo di minoranza, il secondo in un anno, e che potrebbe avere le ore contate: l’8 settembre si vota la fiducia e, se non interviene il soccorso socialista (allo stato improbabile), l’esecutivo cade. Due giorni dopo è in programma una mobilitazione di protesta sulla falsariga dei Gilet gialli. Il siluro arriva dunque da una Francia in crisi politica ed economica: Macron è attivo ed efficace in Europa ma impopolare in patria e il suo Paese sta arretrando pure nell’Africa francofona, mentre il governo deve vedersela con un debito pubblico fuori controllo (quasi il 140% del Pil, inferiore solo a quello di Grecia e Italia): per questo ha annunciato una legge finanziaria d’austerità con 43 miliardi di tagli.
L’inaspettata uscita di Bayrou è stata servita a freddo, forse a fini interni, e si capisce la dura nota di Palazzo Chigi, alla quale si deve aggiungere la sorpresa di Renzi, che da tempo non fa sconti a Meloni. L’ex premier, nel rimproverare il suo buon amico Bayrou («evidentemente non informato»), ha rivendicato la paternità delle norme finite nel mirino: «Quelle che chiama dumping fiscale sono scelte fatte dal mio governo nel 2016». L’ultimo capitolo della querelle italo-francese va resa comunque nel contesto di un’amicizia a fasi alterne tra i due Paesi. Un’amicizia che è stata difficile sul piano storico sin dalla Prima Repubblica e con de Gaulle imperante, alimentando i consueti stereotipi dei francesi arroganti, ma che è diventata problematica e costante con i rinnovati duelli fra Macron e Meloni. Con cicli differenti, s’intende: burrasca e poi schiarita, sino al disgelo con il bilaterale di giugno fra i due e, infine, le intemerate di Salvini contro il presidente francese passate sotto silenzio dalla premier. Un’involuzione, nonostante il Trattato del Quirinale firmato nel 2021 al tempo del governo Draghi destinato alla cooperazione rafforzata fra i due partner, in vigore dal 2023 e criticato allora da Lega e FdI.
Questa volta è scesa direttamente in campo la presidente del Consiglio e la novità sta nel motivo del contendere. L’ambito economico-finanziario non era entrato nell’agenda delle contese che fin qui riguarda la gestione dei migranti, i rapporti in Europa, quali scelte operare per difendere l’Ucraina sul cui sostegno c’è comunque un allineamento, la strategia nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Fra Macron e Meloni non c’è chimica e si sa quanto siano importanti le relazioni personali nell’accompagnare l’arte diplomatica. Il conflitto è di natura politica. L’inquilino dell’Eliseo presidia in Europa la linea avanzata di contrasto al sovranismo e al populismo e, da liberale, rappresenta - per quanto non in buona salute - un universo culturale alternativo al nuovo senso comune che si va diffondendo. Lo è perché ha in casa un peso massimo dell’oltranzismo di destra e perché interprete del sentimento repubblicano, che in Francia significa democratico. Temi scivolosi per la leader italiana che, benché in marcia verso un neo moderatismo, non intende scoprirsi a destra (leggi Salvini e simili), pagando quindi pegno per le proprie contraddizioni.
C’è poi un aspetto paradossale: la lontananza politica dai cugini d’Oltralpe si sta consumando con una destra italiana che, viceversa, sul piano istituzionale avrebbe un punto d’incontro ideale con il sistema semipresidenziale, essendo il presidenzialismo il suo retroterra culturale (e oggi è costretta ad osservarne anche i limiti). C’è poi la ricaduta su ciò che vuol essere questa Europa, se intende uscire dalla sua irrilevanza geopolitica, come suona la ripetuta denuncia di Draghi, e in qualche misura poter gestire quel che le resta di rilevante. E qui entra in gioco l’America di Trump, che ci ha derubricati da alleati a gregari. Il quesito non riguarda solo l’adesione ai Volenterosi di Macron e dell’inglese Starmer per un dispiegamento militare in Ucraina come parte della garanzia di sicurezza post-conflitto, in nome di una soggettività europea, cioè di una autonomia strategica, un orizzonte al quale si oppone legittimamente l’Italia.
Il tema divisivo consiste nella ricerca di nuovi equilibri fra atlantismo ed europeismo, per evitare che il primo sacrifichi le residue ambizioni del secondo, in una fase in cui Trump opera per sciogliere il vincolo storico che ha unito per decenni Europa ed America in una comunità di destino. Fra Macron e Meloni c’è di mezzo Trump: l’ostacolo, non la soluzione.
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