Generazioni, se i redditi creano ingiustizie

Se i giovani guadagnano poco forse non è solo colpa loro. A meno che non vogliamo incolpare un’intera generazione. C’è un proverbio arabo che dice che i figli assomigliano più al loro tempo che ai loro padri e questo è più che mai vero per gli stipendi. Basta dare un’occhiata allo studio effettuato dal Caf della Cisl di Bergamo (che corrobora molti studi precedenti dello stesso tenore e con gli stessi amari risultati, compreso uno della Banca d’Italia di qualche anno fa), basato sulle dichiarazioni dei redditi pervenuti all’Agenzia delle Entrate al 7 luglio.

Ci sono quasi quindicimila euro di differenza tra gli stipendi di lavoratori «anziani» e i nuovi entrati, per non parlare del fatto che il numero di questi ultimi è decisamente squilibrato con gravi conseguenze se si pensa alla tenuta dei conti previdenziali.

La fotografia del Caf bergamasco è alquanto scoraggiante e mette a fuoco uno dei tanti «divide» che caratterizzano la società italiana sotto il profilo dei salari. Il primo è quello tra manager e dipendenti, il secondo è quello tra uomini e donne, il terzo è quello tra vecchi e giovani. I tre grandi squilibri del nostro tempo. A considerare i rapporti di lavoro (i contratti a termine, gli stage infiniti, i «parcheggi temporanei part time») e i salari non sembra che sia passata una generazione ma un’era geologica. Già l’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale indicava come le trasformazioni del mercato del lavoro abbiano portato a una decisa diminuzione dei contratti a tempo indeterminato. Nel 2019, il reddito medio di un lavoratore nato tra il 1953 e il 1969 è stato di quasi 28mila euro; 24.253 tra il ’70 e il 90, poco più di 17mila per i venti/trentenni e 8.310 per chi è nato dopo il 2000. L’anno successivo i dati non si sono discostati di molto: 26.800 nella «prima fascia», 23.344 per i 30/50enni, quasi 17mila per i nati dal 90 al 99 e sotto i diecimila per i ventenni.

Ora c’è una novità: la marea dell’inflazione rischia di sommergere i redditi meno alti, ovvero ancora una volta i giovani, creando fratture profonde nel Paese. Inutile aggiungere che la laurea sta diventando sempre più importante per entrare nel mondo del lavoro, anche se il numero degli iscritti agli atenei, complice la pandemia, è diminuito e in Italia ci sono oltre due milioni di Neet, ragazzi che non studiano e non lavorano. È vero che spesso i padri restituiscono ai figli una parte del loro reddito sotto forma di casa, sussidi e donazioni ma questo è profondamente ingiusto, perché porta a una logica familista e non permette a chi è di umili condizioni di salire, di «farsi da sé» come si diceva una volta. Altro che ascensore sociale. Qui non ci sono nemmeno le scale. Come rimediare almeno in parte a questo gap generazionale? Con il salario minimo? Francesco Corna, segretario della Cisl bergamasca, dice che è una falsa ricetta. Il vero nodo è il lavoro povero, il reddito di coloro che pur faticando non riescono a tirare a fine mese e a farsi una famiglia. I giovani, appunto. La contrattazione di primo e secondo livello tra le parti sociali dovrebbe sopperire a tante disfunzioni. Purché venga esercitata. Veniamo da decenni in cui il sindacato è stato tante volte mal sopportato e spesso umiliato persino dai governi, quasi si trattasse di un orpello. Una volta i padri speravano che i figli avessero una sorte migliore. È stato così per la generazione uscita dalla guerra e così per i loro figli con i cosiddetti «boomer», la generazione del boom economico. Dopo sono cominciati i guai. Oggi non è più così. Qualcuno la chiama sindrome di Crono, la divinità greca che ha divorato i suoi figli. E in fondo non c’è sorte peggiore.

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