Giorgia, vorrei ma non posso

italia.Addio al governo Draghi, fine della stagione degli esecutivi d’emergenza, elezioni allestite in tempi stretti, esordio a palazzo Chigi della destra ex missina con Giorgia Meloni. Un sistema politico che ricomincia dal destra-centro al posto del centrodestra e con un Pd terremotato.

Nell’anno della guerra in Ucraina e degli choc multipli che si sommano, l’Italia un po’ continua a stupire e un po’ a confermarsi per quello che è, ma nel complesso la società vitale – per usare il metro di giudizio di Draghi nella sua prima uscita da ex premier – ha dimostrato di farcela. I compiti a casa, però, non finiscono mai e s’è già constatata la distanza fra parole d’ordine elettorali e durezza dell’atterraggio sulla realtà, fatta di concretezza dei conti e dei vincoli europei. Realismo al posto del virtuale, se non del velleitario, e quindi marcia indietro: meglio così.

La legge di stabilità, il primo atto corale del governo, lo strumento che più di altri indica un’idea di società, appare modesta e al di sotto delle aspettative degli stessi decisori. Lo ha ammesso Meloni nell’affermare che si poteva fare meglio, dopo essersi definita orgogliosa di quel che si stava costruendo. I pasticci contabili finali, poi, hanno dato l’idea di una certa confusione e in più restano alcune incompiute.

Premessa: non s’è mai vista una manovra finanziaria salutata dalla folla plaudente, tuttavia erano state create aspettative di svolta e di scosse da parte di un governo tutto politico e identitario, di un segnale che le cose sarebbero andate per il meglio. Che dal 25 settembre in poi sarebbe stata tutta un’altra storia. Certo, il tempo era poco, si scontano alcune incertezze della prima volta di una compagine di destra, comunque la gestione dei conti pubblici è stata ispirata alla prudenza e le misure per fronteggiare il caro energia hanno assorbito buona parte della manovra, che però andranno in scadenza a fine marzo e dovranno essere rifinanziate. Gli spazi fiscali sono esigui e la sfida a Bruxelles per ora s’è risolta nel prendere atto che è meglio stare con l’Europa che contro: qualche fuga in avanti, poi il ripiegamento. La parte più scivolosa della legge finanziaria è relativa alle scelte discrezionali della politica, quelle non legate al caro bollette, un’ingegneria finanziaria raramente così ricca di provvedimenti fiscali e di condoni, messaggi a selezionati gruppi di elettori e contribuenti, una manovra che sembra accentuare la differenze tra categorie di reddito, con un’attenzione agli autonomi e minore ai lavoratori dipendenti. Si è insistito sul cabotaggio, spaiato rispetto al peso di tutto quel che sta succedendo, come la questione del Pos e dei contanti, per poi arrendersi alle critiche di Bankitalia e della Commissione europea. Un Paese che ha cercato il consenso attraverso il discusso Reddito di cittadinanza (per come è stato mal confezionato, perché in diversi casi sganciato dalle situazioni economiche e sociali degli interessati) e che ora appare tentato dalla strizzatina d’occhio ai potenziali evasori. In un’Italia che, non da oggi, ha due caratteristiche negative. La prima: mantiene il più alto tasso d’evasione fiscale dell’Unione europea, pari all’11,5% del Pil, più del doppio rispetto a Germania, Francia, Spagna. La seconda: le mancate entrate tributarie e contributive sono state stimate nel 2019 vicine ai 100 miliardi di euro. Un Paese sostenuto dai fiscalmente «poveri benestanti», perché – come rilevano gli studi dell’economista Marco Fortis pubblicati dal «Sole 24 Ore» – c’è chi paga per i molti che non pagano. «Il contrasto all’evasione – ha scritto Marco Iasevoli su «Avvenire» –, così come la transizione energetica, non sono più opzioni tra le varie disponibili nel mercato elettorale, non sono più orizzonti “negoziabili” o programmi contraibili, sono ormai rotte necessarie che non possono essere annullate per pagare pegni con categorie e interessi specifici o magari per accontentare un alleato politico che fa le bizze». La manovra riflette la recente immagine che i sociologi del Censis hanno dato dell’Italia: il «Paese della latenza», ovvero vive lo spazio di tempo che intercorre fra lo stimolo e la corrispondente reazione senza adeguate risposte e in modo difensivo. Mentre l’Europa viene vissuta come opportunità e alibi: nel primo caso perché ci evita di andare a sbattere, nel secondo perché si può sempre dire che dobbiamo sottostare ai diktat di Bruxelles, come nel caso del braccio di ferro sul Mes, il Fondo salva Stati, la cui riforma prima o poi andrà ratificata. Lo stile comunicativo di Giorgia Meloni, la sua reiterata «coerenza», si riassume nel tenere il punto mentre indietreggia, senza sbandierarlo troppo: vorrei ma non posso. La premier, del resto, è ancora sotto la protezione dell’onda lunga del voto del 25 settembre: può contare sulle divisioni delle tre opposizioni, sapendo che alle prossime regionali nel fortino della Lombardia e nel Lazio a rischiare di più sono i suoi due inquieti alleati.

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