Gli Stati emergenti, l’Occidente non è nemico

IL COMMENTO. Sarà quello sudafricano un vertice che cambierà le sorti del futuro mondo post turbo-globalizzazione oppure sarà il solito flop degli Stati non allineati, troppo diversi tra loro per riuscire a concludere qualcosa insieme? Il Brics, il club dei Paesi emergenti - Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa - è all’incrocio con la storia e si trova nella situazione di dover decidere cosa farà da grande.

Alla sua porta bussano già altri Stati, tra i quali Arabia Saudita, Argentina e Indonesia, che vorrebbero aderire. Il primo problema è, però, definire che cosa sarà il Brics: u n club economico o un club politico? La Cina vorrebbe elevarlo ad un’entità capace di rivaleggiare con il G7, che raggruppa i Paesi occidentali più industrializzati al mondo. L’India, al contrario, non ne vuol sentire neanche parlare. New Delhi dice «sì» alla difesa di comuni interessi economici, ma «no» ad una forza politica che sfidi l’Occidente.

Non in agenda c’è la questione della de-dollarizzazione. Qualche Paese vorrebbe introdurre sistemi di pagamento in valuta locale, basati su accordi bilaterali. Altri, tra cui il Brasile, propongono la creazione di una moneta ad hoc (che potrebbe chiamarsi - secondo indiscrezioni - l’R5) «senza dipendere da una valuta di uno Stato terzo». Ma Brasilia non doveva già far nascere il «Sur» insieme all’Argentina? È bene subito sottolineare - a scanso di equivoci - che il predominio del dollaro nei traffici internazionali non corre, al momento, alcun pericolo. Anzi. Chiunque abbia finora tentato di allontanarsi si è trovato in un mare di guai. Ad esempio, la Russia ha adesso i forzieri pieni di rupie e non sa bene cosa farne; non può nemmeno calcolarle all’interno delle proprie riserve di valuta pregiata. Ma poi cosa ci fanno nel Brics Paesi democratici o ad alto livello democratico affianco di autocrazie? La mancata partecipazione del presidente russo Putin al summit in presenza è dovuta dall’impossibilità di garantirgli la non esecuzione dell’arresto da parte della giustizia sudafricana (che è indipendente dalla politica nazionale) su mandato della Corte internazionale dell’Aia.

Insomma, rimettere insieme questo puzzle a Johannesburg sarà un’impresa non da poco anche perché la realtà globale post Covid è cambiata. La Cina, soggetta ai dazi Usa, è entrata in crisi e sta per affrontare una sua «Lehman Brothers» in versione mandarina dai contorni incerti. La Russia, impelagata nell’avventura ucraina, è stata messa a dieta dalle sanzioni occidentali. Il Brasile di Lula ha incassato un mezzo passo falso alla recente conferenza sull’Amazzonia. Al contrario, l’India è diventata il Paese più popoloso al mondo e la sua economia è in crescita turbolenta. Le sue scelte geostrategiche nell’Indo-Pacifico, dove ha abbracciato le posizioni Usa, hanno facilitato questo percorso positivo.

L’Arabia Saudita, che bussa al Brics, è impegnata a rifarsi il pedigree dopo lo scandalo dell’omicidio del dissidente Khashoggi nel 2018. Ryad ha appena ospitato un summit per la pace in Ucraina con una quarantina di Paesi partecipanti senza il Cremlino e ha iniziato una nuova stagione diplomatica con l’Iran. In breve, India e Arabia Saudita stanno segnalandosi come le nuove realtà emergenti non solo economiche ma anche politiche. Ambedue sono consce che il contestato Occidente, campione indiscusso nelle innovazioni tecnologiche, è sempre il «banco» nel gioco degli equilibri mondiali sia finanziari che politici.

Meglio andarci d’accordo e non rischiare che qualcuno spenga la luce anche a loro. Chiedere per dettagli a cinesi e russi.

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