I due Matteo in lotta
dettano la linea

L’attesa è tutta per lo scontro a «Porta a Porta» tra Matteo Renzi e Matteo Salvini. Sarà l’evento mediatico-politico dell’autunno e celebrerà l’esistenza di due leader che, combattendosi, si legittimano a vicenda. Salvini e Renzi puntano ad essere i mattatori, dalla maggioranza e dall’opposizione, della fase politica che si è aperta con la nascita del governo giallo-rosso, e non ammettono intrusi nell’agone: né Di Maio né Zingaretti e tantomeno Conte. Tutto sta a vedere se avranno la forza per portare a termine un obiettivo così ambizioso ma di sicuro la sfida a casa Vespa, la «Terza Camera» della Repubblica dove sono accadute quasi tutte le «svolte» politiche da Tangentopoli in poi, è un punto a loro favore che oscurerà il protagonismo degli altri attori, per una sera retrocessi al ruolo di «spalle» dei due leader.

Renzi si pone come l’alternativa europeista e riformista, di centro moderato-sinistra moderata, alla destra anti-europea di Salvini. L’uno punta a svuotare dei voti centristi il Pd lasciandolo in mano alla vecchia ditta ex pidiessina, e a ereditare i voti liberali di Forza Italia; l’altro consolida la sua guida di una destra sovranista che comprende Fratelli d’Italia e l’ala filoleghista del partito berlusconiano, ormai trasformato in terreno di caccia dall’inevitabile declino anagrafico del suo fondatore.

Curiosamente entrambi i Mattei – che si potrebbe dire, citando, «simul stabunt, simul cadent» – subiscono in questo momento delle parallele offensive giudiziarie molto pesanti. Renzi vede accusato il suo braccio destro di sempre, Luca Lotti, per lo scandalo degli appalti Consip; Salvini si deve parare dalle nuove rivelazioni sul cosiddetto Moscagate che proverebbero l’esistenza di tangenti a favore della Lega. Accuse ancora tutte da dimostrare ma che finiscono per rappresentare il piombo nell’ala dei due aspiranti consoli della politica ventura.

In questo duello si inserisce il presidente del Consiglio Conte il quale ritiene di avere molte più frecce nella sua faretra del capo politico del M5S Di Maio per trasformarsi nel front man di uno schieramento di sinistra-centro che accorpi i grillini con le formazioni gauchiste polverizzate in tanti partitini che però adesso si ritrovano nell’area di governo. Conte si autodefinisce, con grandissima ambizione, «il riformatore dell’Italia»: non male per uno che iniziò l’avventura politica come semplice amministratore di condominio del contratto giallo-verde («Questo posso dirlo?», «No»: chi può dimenticare il primo discorso programmatico del professore pugliese e lo scambio di battute carpito dai microfoni con Di Maio, allora potente e vincente?). Il vantaggio di Conte sta nella sua posizione: è presidente del Consiglio e gode della massima visibilità, ogni suo gesto fa notizia. La sua debolezza sta nella frammentazione correntizia del M5S e nella resistenza ad oltranza che farà Di Maio per scongiurare il prepensionamento di lusso al ministero degli Esteri.

Il vantaggio di Renzi e di Salvini è che hanno entrambi un controllo pieno del loro partito, e in più l’ex segretario democratico si è anche conquistato abilmente la golden share del governo che può far cadere in qualunque momento privandolo del voto dei suoi quindici, indipensabili, senatori. Non avendo partecipato alle trattative sul programma, Renzi si sente le mani libere e può dettare le sue condizioni: quando ha detto un no senza appello all’aumento (o rimodulazione) dell’Iva, Di Maio è stato subito costretto ad inseguirlo e tutti gli altri - Franceschini compreso - hanno dovuto sottostare al diktat. Insieme, comunque Renzi e Di Maio in quella circostanza hanno messo all’angolo il Pd di Nicola Zingaretti che stenta a trovare una propria centralità nonostante la corposa presenza al governo e, presto, nel sottogoverno.

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