I partiti in subbuglio
agli snodi cruciali

Non è il momento di prendere ma di dare: il criterio di Draghi, associato al «rischio calcolato», è questo e finora i consensi sostengono il premier, che intanto ha blindato il Piano di ripresa. Lo schema suona come un avviso ai naviganti, soprattutto ai duellanti Salvini e Letta. Questo non esclude buoni ripensamenti anche da parte del capo del governo, come è avvenuto sugli appalti. Si cambia però spartito e i due pivot della maggioranza dovranno decidere se accompagnare il percorso ricostruttivo dell’esecutivo, intestandosi equamente i risultati, o se marcare una differenza identitaria. Fin qui la strategia delle bandierine di partito non ha funzionato granché: fughe in avanti per vedere l’effetto che fa, rientro, accomodamento finale. Annettersi Draghi, strattonarlo a destra o a sinistra, prefigurargli un futuro prossimo appare un esercizio arbitrario. L’uscita di Letta sulle tasse, pur condivisibile come principio, è indicativa, dice anzi qualcosa di più sulla mancata sintonia fra Pd e ceto medio. Perché ha a che fare con la psicologia collettiva, che ormai copre quasi tutta l’offerta politica.

Le tasse sono un tema fastidioso e sensibile, vanno maneggiate con cura, specie se riguardano la casa: in un Paese in cui l’80% è proprietario dell’abitazione in cui vive, le pareti domestiche sono l’approdo di una vita frugale, non un lusso. La proprietà della casa è vissuta come l’estensione fisica dell’autonomia individuale. Poco importa che la proposta del segretario Pd riguardi un’aristocrazia ristretta, perché scatta un meccanismo mentale che fa dire ai più in regola con il fisco: saremo noi le prossime vittime della sinistra che ci spreme. C’è stato anche questo nelle fortune transitorie di Berlusconi. Questi stop and go, però, vanno messi nel conto, peraltro favoriti dall’allentamento della pressione sanitaria, quindi senza più lo scudo neutro delle decisioni delegate a medici e scienziati che limitava la manovra politica. Il governo del quasi tutti, pur nato senza una precisa formula politica, non ha espulso il confronto fra partiti, che puntualmente torna quando si devono prendere decisioni inevitabilmente politiche e che segnano la differenza fra sinistra e destra. Un esecutivo vissuto come una parentesi necessaria e obbligata, ma pur sempre parentesi, con una politica percepita e sofferta come minorità rispetto a tecnici. Una camicia di forza che segnala un cambio d’orizzonte: stop alle fanfare e alle rumorose intemerate, è il tempo del ripristino della realtà. I fragori sono concessi solo all’esaurirsi del fallimentare ciclo populista, platealmente testimoniato dall’autocritica di Di Maio sul linciaggio mediatico contro il sindaco dem di Lodi, ora finito assolto: un testo, quello del ministro grillino, che sembra scritto da un curatore fallimentare tardivamente pentito perché, nell’espellere gogna e giustizialismo, sottrae la ragione sociale del movimento, l’esistenza stessa dei Cinquestelle.

L’apparente tramonto del populismo multicolore impatta anche sulla Lega, tallonata dall’esterno da Fratelli d’Italia, chiamata a ridefinirsi in un contesto meno favorevole e con gli amici di un tempo in difficoltà. E, per riflesso, sulla strategia di Letta chiamato alla guida di un Pd che, nella migliore delle ipotesi, è una combinazione imperfetta e in perenne transizione, afflitta dalla sindrome di finire come Scelta civica, il partito in loden che fu di Monti. Un sistema dei partiti in smottamento atteso agli snodi cruciali: la messa in sicurezza del Piano di resilienza, le amministrative in autunno e il rebus del Quirinale. Sarà il tempo delle sorprese, della fantasia della storia.

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