I partiti
disorientati
dallo stile
di Draghi

La compostezza, la sobrietà, il riserbo adottati dal nuovo premier e fatti propri solidalmente dal suo team di tecnici non devono indurci a pensare che questo sarà lo stile seguito anche dai partiti. A parte le questioni di galateo comunicativo, è il disorientamento in cui sono precipitati che li spinge ad agitarsi per uscire dallo stato traumatico in cui si ritrovano. Sarà quindi difficile per loro non trasgredire la consegna a mantenere un contegno che sia coerente con quel vincolo alla solidarietà che pure dovrebbe ispirare la formula politica dell’unità nazionale. Sono troppe le spinte contrarie.

La convivenza tra diversi, anzi tra opposti, non è mai facile. È destinata a divenire ancor più travagliata nel momento in cui ognuno di loro è chiamato a ripensare strategia, alleanze, persino l’identità.

Questa condizione inedita richiede ai partiti di riposizionarsi, se non altro, perché costretti a far propria una soluzione che, lungi dall’esser stata nei loro piani, era stata addirittura da loro categoricamente esclusa. Ma l’elemento più destabilizzate è che la formazione del governo Draghi rivoluziona le loro prospettive. Le rivoluziona per la destra come per la sinistra, per il Pd e, ancor più, per il M5s, ma anche per la Lega, Fi e per lo stesso FdI.

Il dato di fondo è che la soluzione Draghi rende «irreversibile» il vincolo che stringe l’Italia all’Europa. Dopo la pandemia, non c’è più salvezza per il nostro Paese fuori da una politica convintamente europeista. Se è vero che senza il supporto della Bce e il sostegno finanziario del Next Generation Eu nel nostro futuro c’è solo il default, il sovranismo o cambia rotta o finisce fuori strada. Salvini ha già precipitosamente invertito direzione. La Meloni si è limitata a farsi di lato: opposizione sì ma costruttiva («patriottica»).

Paradossalmente, la nuova situazione suscita problemi ancor maggiori al Pd, che pure può vantare un europeismo consolidato e toto corde. Paga l’aver subordinato la sua politica al vincolo dell’alleanza stretta con il M5s. La difesa fino allo stremo, e oltre, del governo Conte 2, anche a costo di esporsi a scene penose, quali lo scouting di parlamentari poco presentabili (per tutti, l’ineffabile abitatore di ulivi, il senatore Lello Ciampolillo) per poi rimangiarsi il suo «O Conte o Morte» e professare subitamente un’incrollabile lealtà al nuovo premier: tutto ciò fornisce la riprova che il partito di Zingaretti non guida, ma segue gli eventi. E in tempi di burrascosi cambiamenti, non avere una rotta ben definita condanna a sbandamenti continui, persino al pericolo di perdersi.

Il Pd era nato con una espressa «vocazione maggioritaria»: proporsi come punto di raccolta di un fronte largo d’opinone pubblica che si riconoscesse nei valori e nei programmi della sinistra. Il ridimensionamento elettorale subìto nelle ultime tornate lo ha convinto a ripiegare verso la costruzione di un’alleanza di centro-sinistra. Solo che a sinistra ha poco da recuperare (solo il 3% di Leu) e al centro (ma che centro è?) ha solo il M5s, o meglio, quel che ormai resta del fu primo partito d’Italia. Vaste programme, verrebbe da dire. Ma anche assai arduo. Come rianimare la sinistra del nuovo Millennio mescolando ingredienti che sino a ieri erano considerati - e si consideravano - revulsivi?

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