(Foto di Colleoni)
ITALIA. «Giro giro tondo, gira il mondo, gira la terra, tutti giù per terra! Poi però, un bel giorno, il mondo ti cade addosso sul serio, e non ti rialzi più…». Basta poco a Giovanni Soldani per dare l’idea di quelli che oggi chiamiamo «gli ultimi», gli «emarginati», di chi vagabonda per la città in cerca di sé o di ciò che è stato, indossando i pochi stracci che gli sono rimasti.
Il monologo di Soldani fa venire i brividi e il messaggio arriva forte ai mille bergamaschi (mille, un numero che torna nella storia di solidarietà e vicinanza della nostra gente…) riuniti nella chiesa ipogea del Seminario per festeggiare il mezzo secolo di Caritas Diocesana. Cinquant’anni al servizio dei più fragili, con loro e in mezzo a loro, e non solo per un pasto caldo o una coperta di lana, ma anche per mostrare «un viso amico», capace di ascoltare e di non giudicare. Capace di accogliere senza chiedere, capace di una parola o di un gesto che sa riconsegnare a quegli uomini e a quelle donne la dignità di persona, quella che spetta di diritto a ciascun essere umano, chiunque sia, qualunque cosa abbia fatto. Come non riconoscere in questo modo di agire il tratto di Papa Giovanni? Come non ricordare la «Pacem in Terris» laddove il Pontefice di Sotto il Monte invita a non confondere mai l’errore con l’errante? «L’errante - scriveva il Papa bergamasco nel documento rivolto “a tutti gli uomini di buona volontà” - è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità».
Come non riconoscere in questo modo di agire il tratto di Papa Giovanni? Come non ricordare la «Pacem in Terris» laddove il Pontefice di Sotto il Monte invita a non confondere mai l’errore con l’errante?
Non da meno, quattrodici anni prima, don Primo Mazzolari, quando nell’aprile del 1949 - lo ricordò Papa Francesco nel messaggio per la V Giornata mondiale dei poveri, il 14 novembre del 2021 - ebbe a scrivere: «Vorrei pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poveri, chi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore. (…) Io non li ho mai contati i poveri, perché non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano».
Siamo spesso orientati a confondere la carità con l’elemosina, ma la carità va ben oltre l’elemosina, va ben oltre il mettere tra le mani di un povero una piccola moneta. Serve anche quella, non c’è dubbio, ma la carità chiama l’amore - un amore incondizionato verso il prossimo -, e l’amore chiama la speranza. Carità, dunque, significa (anche) ridare speranza a chi la speranza l’ha perduta da un pezzo, a chi la speranza non è nemmeno concessa, a chi nella speranza non osa più nemmeno sperare. Ed è proprio per questo che nella vita di chi una vita non l’ha più ci sono momenti in cui - per dirla come il poeta tedesco Rainer Maria Rilke - una rosa è più importante di un pezzo di pane.
I mille volontari che oggi «si offrono» a Caritas (mille, anche qui, ancora una volta…) fanno esattamente questo, «cuochi» e «giardinieri» dell’anima, interpretando uno stile di vita che è uno stile di Chiesa, una Chiesa in uscita, al fianco di chi soffre, dando voce a chi voce non c’è l’ha. Per certi versi la missione di Caritas è persino paradossale: non è un’organizzazione di poveri, ma è un’organizzazione per i poveri, non è un’organizzazione sindacale né di partito, non raccoglie tessere e non spartisce nulla, e quando scende in piazza - nelle piazze, nelle strade, ogni notte - lo fa solo per chinarsi su chi tende una mano in cerca di aiuto, non a sostegno di ideologie ondivaghe in base alle convenienze politiche, ma con la forza di una convinzione radicata in una fede che vede in ogni uomo l’Uomo della Croce. E lo fa, preme dirlo, con gratuità, perché gratuità e anonimato fanno rima con carità, ne sono il fondamento.
Caritas non si fa temere, si fa rispettare, perché il rispetto che chiede lo chiede per coloro di cui si prende cura: bergamaschi della porta accanto, migranti, clandestini profughi in fuga da una guerra non fanno differenza, non c’è alcuna distinzione. E quando richiama l’attenzione della città, non lo fa per il gusto della polemica, ma per tener fede agli impegni presi con l’intera comunità: aver cura di tutti e di ciascuno, nel momento del bisogno. «La carità, che vuol dire amore fraterno, è il motore di tutto il progresso sociale» diceva Papa Paolo VI, il «Papa della carità».
Ma per far sì che sia così - e che sia fatto bene - bisogna che tutti facciano la propria parte, che tutti vedano e abbiano compassione, che tutti sappiano rinunciare a qualcosa in favore di qualcuno. Quella del buon samaritano ha sì duemila anni, ma è una tra le parabole più attuali del Vangelo, in grado di mostrarci con straordinaria chiarezza la strada da seguire, per salvare noi stessi prima ancora di colui che vogliamo aiutare. «Da solo – diceva Papa Francesco – non si salva nessuno». Lo dice bene il povero di Soldani nel ricordare i «giro giro tondo» di quando era bambino: «Cadevamo tutti per terra tenendoci per mano, ma ci rialzavamo in fretta per ricominciare subito un altro giro giro tondo… Adesso ho capito perché ci si alzava e si rideva… perché ci tenevamo per mano… il segreto è tutto qui, tenersi per mano». Più che un segreto, un impegno per tutti noi: tenersi per mano, l’un con l’altro. Vi pare poco?
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