I venti di tempesta
nucleare in Asia

Soffiano venti di tempesta in Asia. Mentre l’Unione europea riapre le sue storiche frontiere interne dopo tre mesi di pandemia, in quelle indo-cinese e coreana la fanno da padrone morte e distruzione. Se le regioni centro-occidentali del Vecchio continente hanno impiegato secoli di guerre e hanno versato quantità incalcolabili di sangue per siglare il trattato di Schengen, alle latitudini più orientali si è rimasti prigionieri delle solite tragiche logiche. Sul remoto Kashmir indiani e cinesi se le sono date di santa ragione; nella zona demilitarizzata tra le due Coree il Nord ha fatto esplodere la «palazzina del dialogo».

Tutti gli attori sul terreno hanno a disposizione - direttamente o indirettamente - armi nucleari. Secondo una prima ricostruzione, 55 militari indiani e circa 300 cinesi sono venuti a contatto in un tratto di confine poco segnato, dove sono bandite per l’accordo del 1996 armi ed esplosivi. Si sono massacrati a colpi di bastoni pieni di punte acuminate, come avvenivano negli scontri tra soldati nel corso del Medio Evo. Venti indiani hanno perso la vita, mentre nulla si sa delle perdite tra i cinesi. Nuova Delhi e Pechino si contendono da decenni un fazzoletto di terra inospitale.

Nel 1962 gli indiani subirono una sconfitta umiliante, ecco la ragione per cui il premier Modi si sta muovendo con cautela, mentre le opposizioni nazionaliste si sono lanciate in dichiarazioni bellicose. Ambedue i contendenti stanno ora costruendo - e questa dovrebbe essere una delle cause della battaglia a colpi di bastone - strade e ferrovie nella regione per movimentare in futuro mezzi e uomini più facilmente. D’accordo, per gli indiani la Cina non è l’acerrimo nemico Pakistan, ma la tensione la si taglia lo stesso col coltello. Mosca - di fatto alleata con Pechino in chiave anti-occidentale e grande venditrice di armi a Nuova Delhi - ha organizzato una mediazione con urgenza per la prossima settimana. Il Cremlino ha anche invitato militari indiani alla parata sulla Piazza Rossa di mercoledì scorso.

Diversa è la situazione in Corea. Dopo i successi diplomatici del 2018 si osservano adesso decisi passi indietro. Il leader nordcoreano si sente tradito dal presidente Usa Donald Trump: le aperture fatte finora da Pyongyang non hanno portato a nulla di concreto, come ad esempio la cancellazione delle sanzioni internazionali. Il Nord è in piena crisi economica sia per la situazione interna che per il Covid-19. Presto Pyongyang potrebbe tirare fuori gli artigli, come fa di solito in queste occasioni, sparando qualche missile intercontinentale o tornando agli esperimenti nucleari. Le cronache ufficiali raccontano che sia stata la sorella del leader coreano, Kim Yo-jong - descritta fino a due anni fa come «la colomba» della famiglia - a volere la distruzione della «palazzina del dialogo».

L’ipotesi degli osservatori più attenti è che lo stato di salute di Kim Jong-Un sia davvero precario, come testimoniano le sue continue assenze dalla scena ufficiale e le troppe voci sul suo stato precario di salute, ed il regime si prepari al passaggio dei poteri tra fratelli. Il rischio che in ambedue le crisi la situazione scappi di mano è alto. Qualche irresponsabile potrebbe pensare che la via d’uscita ai pesanti problemi interni, acuitisi con la pandemia, possa essere un’avventura guerreggiata che si trasformi in tragedia atomica. Di questi tempi così complicati è bene che la comunità internazionale abbia occhi vigili. Scaramucce all’apparenza di poco conto potrebbero essere dei veri «casus belli». Meno male che in Ue abbiamo Schengen.

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