Il conflitto di «rito»
e il balbettio d’Occidente

Per quanto sia triste e crudele dirlo, nell’infinito scontro tra Israele e i palestinesi l’aspetto militare, con i razzi, i bombardamenti e le decine di morti in gran parte civili, è il meno significativo. Anzi, si potrebbe quasi definirlo un rito di cui le parti hanno bisogno per riconoscersi e definirsi a vicenda. Basta osservarne la regolarità: 2001, 2004 (nel 2005 il ritiro delle colonie israeliane da Gaza), 2006, 2007 (con il blocco di Gaza decretato da Israele), 2008 e 2009 (l’operazione israeliana Piombo Fuso è a cavallo dei due anni), 2009, 2014 e via via, di battaglia in battaglia, fino ai nostri giorni.
Il problema vero è l’inconsistenza della politica palestinese e l’arroganza di quella israeliana, elementi di una miscela che ormai vive di vita propria. Il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha rinviato per l’ennesima volta le elezioni politiche, che non si tengono dal 2006.

E il premier israeliano Netanyahu (più di 15 anni al potere, battuto ogni record), per restare in sella si è spostato sempre più a destra, corteggiando gruppi estremisti finanziati dalle lobby americane e sposando una politica del tipo: abbiamo vinto, quindi facciamo ciò che vogliamo.

L’uno e l’altro agevolati dalla totale assenza della «comunità internazionale», capace solo di trincerarsi dietro le formule di principio (per esempio: «gli insediamenti israeliani sono illegali» o «ci vuole la soluzione a due Stati») senza cambiare di un millimetro la situazione sul terreno.

In mezzo ci sono i palestinesi. Nessuno li rappresenta, sono sempre più aggrediti dall’estrema destra israeliana, sono cittadini di serie C sia come residenti di Israele (dove formano il 20% della popolazione) sia in Cisgiordania, dove dipendono da una casta politica che si autoperpetua senza controllo. Guardiamo a quel che succede a Gerusalemme Est. Cinquanta famiglie palestinesi stanno per perdere le case di cui sono proprietarie dal 1956 (quando l’area era sotto la sovranità della Giordania) perché gruppi di coloni ebrei rivendicano diritti di proprietà che risalgono all’Impero Ottomano. Questo in un Paese dove dal 1950 vige una legge per cui tutti i beni dei palestinesi fuggiti o espulsi nel 1947/1948 (750 mila persone) sono sequestrati dallo Stato, dal 1970 un’altra legge che stabilisce che quei beni possono essere passati solo ad ebrei e resta il divieto per i palestinesi di chiedere la restituzione dei propri beni.

In più, per restare a questi giorni, dei 150 mila palestinesi di Gerusalemme Est con diritto di voto, solo 6 mila avevano avuto da Israele il permesso di attraversare il Muro per esercitarlo. Poi ci ha pensato Abu Mazen.

Quindi: Israele non li fa votare e gli prende le case, il loro presidente disdice le elezioni, i Paesi arabi li abbandonano, l’Occidente dei valori e dei diritti li ignora. E ci dovremmo stupire se a furia di essere umiliati e offesi da tutti i palestinesi si fanno affascinare da Hamas, dal folle culto del martirio e della sfida militare a Israele?

Il punto vero è che i palestinesi esistono, sono un popolo, hanno dei diritti (come dei doveri) e delle aspirazioni. Finché gli Usa e l’Unione Europea non lo diranno a voce alta, agendo di conseguenza, nulla di buono potrà succedere. La destra israeliana può cullarsi nell’idea di cacciarli tutti, di prendergli tutto. Ma non succederà senza un bagno di sangue. I balbettii di Joe Biden e dei dirigenti Ue non sono altro che complicità in un disastro che sarà tale sia per i palestinesi sia per Israele.

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