Il Conte in solitudine non piace ai democratici. La partita dei fondi Ue

Finora la triangolazione Conte-Pd-5MS ha tenuto, anche nell’emergenza sanitaria: con i dem più contiani dei Cinquestelle, impegnati a contenere e a svuotare i grillini e a satellizzare un premier dalle buone maniere. Ora c’è qualche preciso indizio di logoramento, riferito alla natura politica del governo. La lite riguarda gli Stati generali voluti dal premier, idea condivisa in teoria nella maggioranza: riunire la platea dei soggetti coinvolti per capire come spendere i 170 miliardi del Recovery Fund e indicare insieme le priorità. In che modo strutturare quel patto con le forze sociali che dovrebbe porre le premesse per arginare la temuta stretta sociale d’autunno e definire le basi della ripresa.

L’irritazione del Pd è che il premier avrebbe agito da solo, nel suo «splendido isolamento», tagliando fuori anche il ministro Gualtieri, al quale non intenderebbe lasciare il pallino del «patto sociale».

Una fuga in avanti frettolosa e da protagonista unico, mentre lo stesso Conte è incalzato perché risolva i dossier che si stanno accumulando e che, se non risolti, saranno dolori: Atlantia, Ilva, Alitalia, Borsa italiana. Dietro l’onda inquieta si coglie la variabile indipendente (ma pur sempre dipendente dalla fiducia del Pd) di Conte: un premier sui generis, ritrovatosi indispensabile un po’ a tutti, anche ai sodali di ieri. L’ex avvocato del popolo, il cavaliere solitario, riassume una figura anomala, privo di uguali in Europa: è alla testa di un governo senza essere leader di un partito e avere una collocazione definita, non è un tecnico (neppure si sente tale) e non è un politico in senso pieno. La sua forza e la sua debolezza. Ha gestito in via quasi esclusiva, almeno sul piano mediatico, la fase 1 e 2 del coronavirus e non intende retrocedere nella fase 3. I sondaggi lo incoraggiano e vuole giocarsi la sopravvivenza su un doppio livello: da un lato spendere sino in fondo la rendita da apprezzamento personale, dall’altro evitare di essere cucinato a fuoco lento per non arrivare in difficoltà all’autunno caldo.

Gli Stati generali si collocano all’incrocio puntuale: permettono al presidente del Consiglio di farsi uomo del dialogo dopo essere stato il condottiero solo al comando e, soprattutto, la chiamata alla responsabilità condivisa, vincolando le parti sociali, consentirà all’interessato di spalmare eventuali insuccessi ed errori. Conte, mobilitando il soccorso di lusso della politica, si precostituisce l’ammortizzatore: ieri gli scienziati e i virologi, oggi i tecnici dell’economia. In questa partita non vanno sottovalutate le mosse del Pd, nei fatti l’azionista politico dell’esecutivo.

Sovente accusato di essere afono in questi mesi, il Pd sembra aver ripreso l’iniziativa con Zingaretti che, rimessosi dal contraccolpo psicologico della malattia, con due articoli sul «Corriere» e sul «Sole» ha rilanciato: sostegno esplicito al Mes (che vale 36 miliardi per la sanità) e ponte a Berlusconi per il sì ai finanziamenti europei e, da qui a settembre, per imbastire un abbozzo di riforma elettorale. L’avviso è a Conte per archiviare i giri di valzer sul Mes («miliardi che arrivano a tassi molto vantaggiosi»): il tempo stringe e il Paese soffre.

In qualche modo i colpevoli ritardi si aggiusteranno, magari senza farlo sapere troppo in giro per non imbarazzare i grillini allo sbando. Se il rinnovato bazooka della Bce è perimetrato in una dimensione tecnico-finanziaria, l’avallo al Mes è una scelta politica, perché incide sulle ambiguità di un pezzo di maggioranza. Sarà un passaggio cruciale, e vedremo come: vuol dire, in ogni caso, essere parte della prospettiva europeista della Merkel.

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