Il disastro ci riporta alla comune umanità

Mondo. «Ovviamente». Sta tutto in un avverbio, quello pronunciato dal cancelliere tedesco Scholz, il senso della mobilitazione internazionale che si è avviata dopo le terribili scosse di terremoto che hanno devastato la Turchia.

«Ovviamente manderemo aiuti e contribuiremo ai soccorsi», ha detto Scholz, riassumendo in quella parola l’atteggiamento di tanti altri Paesi, da quelli oggi più lontani tra loro come Russia e Ucraina a quelli più vicini alla Turchia per cultura e sintonia politica come l’Azerbaigian, dall’Unione Europea come istituzione collettiva e tramite Paesi di spicco come Italia, Francia e Spagna (e compresa appunto quella Germania con cui, all’epoca della Merkel, Erdogan ebbe scontri epocali) fino alla Nato, con cui la Turchia ha iniziato un polemico e insidioso braccio di ferro per l’adesione di Finlandia e Svezia e il loro presunto appoggio al «terrorismo» (per i turchi questo è) dei movimenti curdi. E poi la Cina, Polonia e Romania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Olanda, Grecia, Ungheria…

Un impegno collettivo giustificato dall’immensità della tragedia, da un sisma che non si ripeteva con questa gravità dal 1939, che ha stravolto le popolazioni di Turchia e Siria e ha coinvolto anche l’Iraq (Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, in missione in Iraq, ha pubblicato un video con il «balletto» degli enormi lampadari del palazzo governativo), il Libano, Israele (con la fuga precipitosa della gente dai palazzi e dagli uffici), esigendo un sacrificio di vite umane che già si conta in migliaia e va crescendo di ora in ora. Eppure c’è, sembra esserci, e comunque ci piace pensare che ci sia, anche qualcosa di più.

È come se un disastro naturale, un colpo improvviso che non ha spiegazioni, né vere né presunte, e può investire chiunque ovunque, qualunque popolo o Paese, avesse suonato un inatteso gong imponendo una pausa di riflessione al frastuono di un mondo che vive l’impazzimento della politica, la guerra, una corsa al riarmo che brucia risorse altrimenti preziose, senza negarsi scenari apocalittici che parevano riservati ai peggiori film di fantascienza e che pian piano, di anno in anno, sono diventati sempre più realistici.

La Turchia è grande, l’area più colpita dal sisma è notevole. Ma è possibile che molti di questi tecnici dell’emergenza venuti da lontano si trovino a salvare vite insieme con colleghi ai quali, in diverse circostanze, non rivolgerebbero la parola, per non parlare di quelli che potrebbero trovarsi, armi alla mano, sui due lati di una stessa linea del fronte. È un’ipotesi che dobbiamo tenerci cara e un’immagine, anzi una lezione, di cui tutti dovremmo fare tesoro. C’è ancora un’umanità comune che nessuna lotta politica può annullare, c’è ancora una condizione collettiva (per esempio, la fragilità di fronte alle forze immense della natura) che ci unisce persino quando tutto il resto sembra dividerci. È a questo, piuttosto che a presunte ambizioni di potenza e ad arsenali che sembrano invincibili solo fino all’invenzione di una nuova arma, che dovremmo affidarci.

Il terremoto ha investito soprattutto la Turchia, che infatti è al centro dell’attenzione internazionale. Ma ha massacrato anche la Siria, un Paese che da undici anni è devastato da una guerra in cui la Turchia ha giocato una parte importante, molto contribuendo a inasprirla, a renderla più distruttiva, a farla durare di più. È facile prevedere che la Siria non godrà, per ragioni politiche che qui è inutile rievocare, degli stessi aiuti che andranno al Paese vicino. Non potremo non capire, allora, vedendo donne, bambini e uomini siriani più soli nella stessa disgrazia, che solo quel senso di una comune umanità potrà aiutarci a risolvere i problemi e, in definitiva, a salvarci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA