Il Grande Cardinale, la forma del ritorno

ITALIA. Bergamo ritrova oggi la voce scultorea di Giacomo Manzù.

Il Grande Cardinale in piedi, donato alla città dalla Fondazione Banca Popolare di Bergamo, non inaugura soltanto una nuova presenza artistica nello spazio urbano: riapre una storia, riattiva un legame, richiama una responsabilità collettiva verso ciò che siamo stati e verso ciò che vogliamo continuare a essere. Ogni città ha luoghi che parlano più di altri; e, talvolta, sono proprio le opere d’arte a suggerirci in quale direzione guardare per comprendere meglio il nostro presente.

Il Cardinale, un archetipo

La figura del Cardinale è forse il luogo più riconoscibile della scultura di Manzù. Non è un tema, ma un archetipo: una forma che non imita il potere, ma lo interroga. L’artista lo ha scolpito senza interruzione, trasformandolo in un ciclo vastissimo, coltivato per mezzo secolo e articolato in oltre trecento versioni. Quella postura chiusa e rigorosa, quella verticalità senza enfasi, quella monumentalità trattenuta raccontano una domanda insistente sulla dignità dell’uomo. Il Cardinale di Manzù non giudica e non celebra; osserva. È un corpo che trattiene, che misura, che medita. È forse per questo che la sua presenza nello spazio urbano produce un effetto particolare: non impone, ma induce a pensare.

Il legame con la porta di Salisburgo

In questo percorso si inserisce anche il legame profondo con Salisburgo, città che contribuì in modo decisivo alla maturazione del suo linguaggio plastico. Qui Manzù lavorò alla porta centrale del Duomo, dedicata al tema dell’Amore, dal 1955 al 1958. In quell’opera – essenziale, rigorosa, attentissima al disegno – si colgono già la semplificazione degli schemi compositivi e la rarefazione dei piani che caratterizzeranno, anni dopo, la porta vaticana del 1967. La porta salisburghese è un punto di svolta: è qui che il Cardinale trova il suo equilibrio definitivo tra meditazione e materia, tra spiritualità e corporeità. Salisburgo fu anche il luogo di un gesto profondamente personale: il dono del Cardinale collocato davanti agli archi settentrionali del Duomo, con lo sguardo orientato verso la Residenza, come se l’artista volesse instaurare un dialogo diretto con la storia civile della città.

La collocazione del Grande Cardinale

Oggi quel gesto trova una sorprendente eco a Bergamo. Il Grande Cardinale collocato a pochi passi dall’Accademia Carrara sembra rispondere idealmente a quello salisburghese: due presenze verticali, severe, che attraversano l’Europa e il tempo. Nel cuore del distretto culturale che unisce Carrara e GAMeC, l’opera diventa una soglia: non un semplice ornamento urbano, ma una chiamata alla responsabilità dello sguardo. Ricorda che una città cresce non soltanto ampliando gli spazi, ma riconoscendo i propri maestri e i suoi figli più illustri, ritrovando le radici della propria identità culturale. E ricorda soprattutto che la memoria non è un esercizio di nostalgia, ma un processo di riconoscimento.

Il Bernareggi

A questo dialogo si aggiunge oggi il nuovo Museo Diocesano Adriano Bernareggi, che ha dedicato a Manzù un nucleo autonomo e completamente nuovo, rafforzando ulteriormente la presenza dell’artista nel tessuto culturale bergamasco. Non si tratta di un ampliamento, ma di una scelta precisa: riconoscere a Manzù uno spazio distinto, capace di restituire la complessità del suo rapporto con la città, con la sua storia spirituale e con il patrimonio figurativo che egli ha contribuito a ridefinire. È un segnale che conferma quanto il suo linguaggio continui a essere fertile e necessario.

Il dialogo tra Bergamo e Salisburgo, attraverso la scultura, non è un confronto tra città: è un reciproco gesto di ascolto. Rende evidente che l’arte non riempie uno spazio, lo trasforma; non aggiunge, ma rivela; non decora, ma orienta. In un tempo in cui le città rischiano di perdere la loro voce, un’opera come questa la restituisce con lucidità. Invita a rallentare, a meditare, a pensare. A ritrovare, nella forma di un Cardinale immobile, una domanda antica e sempre necessaria: come restare umani.

Il ritorno di Manzù a Bergamo non è soltanto un fatto culturale: è una dichiarazione di identità. Significa riconoscere che l’arte è parte della vita collettiva, che la bellezza non è un ornamento ma un dovere civile, che un’opera può ancora educare lo sguardo, nutrire la memoria, orientare la coscienza. E ricorda a tutti noi che ci sono maestri che non tornano per essere celebrati, ma per insegnarci ancora una volta la profondità della forma e la misura del pensiero.

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