Il mercato del lavoro, dati positivi con ombre

ITALIA. Il mercato del lavoro italiano non è nelle condizioni tragiche descritte da alcuni per ragioni eminentemente politiche. Tuttavia non è nemmeno nelle condizioni ottimali che altri descrivono per speculari ragioni politiche.

Tralasciando inutili e faziose strumentalizzazioni, infatti, anche gli ultimi dati Istat - pubblicati ieri in riferimento ai primi tre mesi dell’anno - sono positivi, ma non senza ombre che meritano di essere approfondite e possibilmente superate. Negli ultimi dodici mesi, secondo l’Istituto di statistica, gli occupati nel nostro Paese sono aumentati di 432mila unità (+1,8%), «grazie all’aumento dei dipendenti a tempo indeterminato (+4,0%) che si contrappone al calo dei dipendenti a termine (-6,7%) e degli indipendenti (-0,4%)». Se al lavoro ci sono oggi 24 milioni 186mila persone, vuol dire che il tasso di occupazione è a livelli record da vent’anni (al 62,7%) e quello di disoccupazione si ferma al 6,1%. Infine, sempre secondo Istat, «la crescita del tasso di occupazione e il calo di quello di disoccupazione sono più accentuati per le donne». Fin qui i dati decisamente positivi.

Le tre preoccupazioni

Ma allora perché quella per il lavoro rimane tra le principali preoccupazioni delle nostre famiglie? Possibile che il senso comune degli italiani abbia completamente divorziato dal loro buon senso? Difficile arrivare a una conclusione simile. Tra gli stessi numeri Istat, infatti, si scorgono segnali meno rassicuranti. Il primo, e forse il più importante almeno dal punto di vista degli economisti, è che la quantità di lavoro cresce più rapidamente della quantità di ricchezza (Pil) creata dallo stesso: vuol dire, sempre per usare il gergo della scienza triste, che la produttività stenta a crescere. E questo è un problema per i salari. Gli stipendi, infatti, non aumentano in base al buonismo o al cattivismo dei «padroni», né in base alla buona o alla cattiva sorte dei dipendenti; nel medio-lungo termine il loro andamento è legato proprio alla variabile chiamata «produttività». Un secondo segnale in chiaroscuro contenuto nel bollettino Istat riguarda le modalità con cui in Italia si cerca lavoro. A prevalere rimane l’uso del canale informale: sebbene in diminuzione, infatti, la pratica di rivolgersi a parenti, amici e conoscenti rimane la più diffusa (lo fa il 73,6% dei disoccupati), supera l’invio di domande e curricula (per fortuna in aumento, al 71,4%) e la consultazione di offerte di lavoro, ancora troppo distanziati poi i Centri pubblici per l’impiego e le agenzie private di intermediazione.

C’è un terzo fattore negativo da considerare, citato dall’Istat in un rapporto di qualche settimana fa: l’intensa emigrazione dei giovani italiani, in particolare laureati. Tra questi ultimi, abbiamo assistito a una perdita netta per il Paese di 97mila unità nel decennio 2014-2023.

’inflazione non riduce soltanto il potere d’acquisto, è noto, ma spinge i redditi verso scaglioni più alti. I lavoratori sono così doppiamente colpiti: con aumenti di stipendio contenuti, tanti lavoratori possono acquistare comunque meno di prima - l’inflazione cumulata nei due anni post Covid è salita del 17% - e allo stesso tempo sono chiamati a pagare più tasse perché magari sono passati allo scaglione Irpef superiore

Torniamo all’ombra che si staglia sui salari, perché ci sono dati - oltre a quello sulla produttività stagnante - che rendono l’idea della gravità del problema. L’inflazione non riduce soltanto il potere d’acquisto, è noto, ma spinge i redditi verso scaglioni più alti. I lavoratori sono così doppiamente colpiti: con aumenti di stipendio contenuti, tanti lavoratori possono acquistare comunque meno di prima - l’inflazione cumulata nei due anni post Covid è salita del 17% - e allo stesso tempo sono chiamati a pagare più tasse perché magari sono passati allo scaglione Irpef superiore. Secondo l’Ocse, dal 2023 in Italia il prelievo fiscale effettivo sui salari medi è aumentato per questo di quasi un punto percentuale. È il cosiddetto fenomeno del «fiscal drag», su cui ieri il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha annunciato futuri interventi correttivi. Non è necessario essere degli esperti di mercato del lavoro per percepire questi problemi: scarsa produttività di molte occupazioni, mancata efficienza dei meccanismi che fanno incontrare domanda e offerta di lavoro, salari stagnanti se non in retromarcia. Per aggredirli e offrire soluzioni, però, non serve nemmeno perdersi in battaglie ideologiche né in scaramucce partigiane. La premier Giorgia Meloni ha detto correttamente che «il governo non crea posti di lavoro, sono gli imprenditori a farlo». L’esecutivo può però fissare quelle condizioni utili a premiare la produttività, incentivare la contrattazione a livello aziendale (e finalmente la partecipazione dei lavoratori), attutire i contraccolpi della perdita di un posto di lavoro e facilitare la ricerca di uno nuovo. Un obiettivo da perseguire sicuramente - a maggior ragione dopo il fallimento decretato dai cittadini per i recenti referendum - assieme a parti sociali più responsabilizzate, e auspicabilmente con la collaborazione fattiva delle opposizioni.

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