Il pendolo del governo, una sfida tra alleati

Ora si va sul concreto dopo aver sprecato l’inizio di legislatura sui controversi temi ideologici. Giorgia Meloni ha superato il primo test con i vertici dell’Europa. Non era scontato per la premier di destra, estranea all’ortodossia europeista: vedremo i fatti, già da queste ore. Non è scoppiato l’idillio, tuttavia è iniziato un dialogo costruttivo nel segno della reciprocità e ognuno s’è preso diplomaticamente le misure dell’altro.

Nessuna traccia di Orban, l’amico ungherese, intanto alle prese con una crisi sui mercati finanziari che ha portato il fiorino ai minimi storici. Da parte italiana, le rassicurazioni riguardano soprattutto il permanere degli aiuti all’Ucraina e la compatibilità di bilancio. Resta aperta la questione migranti, testimoniato dal dramma (in evoluzione) degli sventurati sulle navi ong nella rada di fronte a Catania.

All’indomani dell’esordio di Meloni a Bruxelles, l’approvazione della cornice della manovra di fine anno riflette un realismo obbligato. Adesso la priorità è garantire alle famiglie e al sistema produttivo di superare lo choc energetico. L’approccio «prudente e sostenibile», un mettere le mani avanti, equivale a misurare quanto e in che modo le promesse elettorali saranno soddisfatte e significa che, per decidere su pensioni e riduzione del cuneo fiscale, bisognerà scegliere su quale spesa intervenire. In ballo ci sono anche la revisione del Reddito di cittadinanza e gli aggiustamenti del Pnrr, oltre alla flat tax: già si avverte qualche scricchiolio, con l’invito alla cautela. La rotta economica, in un quadro internazionale che volge al peggio, è vincolata dal Pnrr e dalle regole europee: la bussola sembra l’eredità di Draghi. La discontinuità è altrove, in una sorta di revisionismo culturale ancor prima che politico per marcare il proprio territorio ideologico e in cui la «destra di comando» è partita dal proprio retroterra, parlando al bacino elettorale di riferimento. Iniziative di bandiera come il rientro in servizio anticipato dei medici no vax e la normativa penale del ministero dell’Interno per i rave abusivi, contestata - al di là degli intenti legalitari - da numerosi giuristi, specie di estrazione liberale. Questioni dove i principi sono stati applicati con modalità differenti a seconda dei gruppi sociali destinatari dei provvedimenti: flessibili con gli uni, inflessibili con gli altri.

Per quanto non direttamente coinvolto, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, notoriamente garantista di lungo corso, in pochi giorni ha ricevuto più critiche che attestati di fiducia. Ora si ripropone di nuovo la querelle migratoria, il vecchio cavallo di battaglia del governo giallo-verde e di qualsiasi populista. Se in linea di principio si tratta di stabilire se vogliamo restare umani o no, sul piano delle relazioni con l’Europa vuol dire uscire dall’equivoco: difendere le frontiere esterne, come ribadito da Meloni e istanza che tutti i partner condividono, non comporta il venir meno dell’obbligo morale e giuridico, prescritto dal diritto internazionale, di salvare i naufraghi in alto mare. L’impressione è che al negato incarico a Salvini di guidare il Viminale possa corrispondere un abbozzo di «salvinismo senza Salvini», dato che l’attivissimo capo leghista si muove come un «premier ombra» cercando di intestarsi in anticipo sulla premier i temi più identitari e simbolici. Sul contenzioso dei migranti osserviamo fin qui tre sensibilità diverse: quella severa del capo di governo, quella durissima di Salvini e quella rigorosa ma dialogante di Tajani. Il direttore del «Giornale», Augusto Minzolini, ha sottolineato un dato di fatto, ma averlo precisato è significativo: questo è un governo di destra-centro, non di centrodestra, dai tratti più distintivi affini alla formula «legge e ordine» a spese della battaglia fiscale, marchio d’origine del berlusconismo. Un lamento che suona come una presa di distanza dagli azzardi spigolosi.

Il punto critico è lo scivolo della competizione a destra, sugli ambiti muscolari e più sottoposti al senso comune, quelli che danno il timbro di una pretesa prontezza decisionale e di consenso, aggiungendo però fratture alle già tante esistenti. Benché insieme nella coalizione e nel governo, Meloni e Salvini subiscono sollecitazioni fra loro contraddittorie: la prima è chiamata a esprimere una cultura di governo, con tutte le responsabilità repubblicane che ne derivano, il secondo rimane in un ruolo di parte, prigioniero di una campagna elettorale infinita. La partenza dell’esecutivo, nelle sue primarie componenti, ha seguito il pendolo delle oscillazioni fra l’agenda tradizionale della destra e spostamenti verso temi meno identitari, in cui s’è vista più concorrenza fra alleati che un’adeguata cifra di moderazione.

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