Il raddoppio di Trump, ora vincere non gli basta

E due. Donald Trump vince largamente (nello Iowa aveva stravinto) anche le primarie repubblicane nel New Hampshire, si appresta a conquistare il Nevada, dove correrà da solo, e con ogni probabilità a vincere nella Carolina del Sud, dove pure Nikki Haley, l’unica rivale rimasta a contendergli la nomination, fu la prima donna governatrice dello Stato dal 2011 al 2017.

Le domande che tutti adesso si fanno sono due: perché la Haley non getta la spugna? E perché Trump sembra così arrabbiato invece di essere soprattutto soddisfatto? Le risposte stanno tutte nel particolare carattere del fenomeno Trump e nella situazione, altrettanto particolare, che intorno a lui si è creata. Trump è il leader populista per definizione. Ha nuclearizzato il Partito repubblicano parlando alla pancia dell’America e saltando ogni forma di mediazione politica. Chi lo segue, prima sceglie lui e poi le sue idee. Che valgono perché offerte da lui e non da altri. Quando spende buone parole per Putin, Orban e altri leader che in Europa sono detestati, gli americani non pensano che Trump sia putiniano o orbaniano ma che sia l’uomo forte in grado di intendersi con gli altri uomini forti del panorama.

Proprio per questo, però, Trump ha bisogno del plebiscito. Non ne aveva bisogno nel 2016, da outsider della battaglia presidenziale (anzi, allora l’immagine super politica di Hillary Clinton giocò a suo favore) e nella sconfitta del 2020 (quando comunque guadagnò voti rispetto al 2016) si è inventato la carta del complotto pro Biden. Ma oggi sì. Per questo vincere non gli basta: deve eliminare persino l’ipotesi di un avversario. Anche perché Biden, che invece è il tipico prodotto dell’aristocrazia del Partito democratico, corre da solo, tanto che vince le primarie anche in Stati dove nemmeno si è candidato. Biden, di fatto, può solo autoeliminarsi: perché non ce la fa più (i suoi 80 anni, in quel ruolo e con quell’esposizione, si notano di più) o perché i vertici del partito, primi fra tutti i clan Obama e Clinton, timorosi di una sconfitta, decideranno di mandare avanti un altro candidato. Se la situazione sembrasse disperata (ma non si vede perché) anche un giovane che potrebbe bruciarsi senza troppo danno per la causa. Per Trump, ottenere la nomination già in primavera vorrebbe anche dire risparmiare tempo, energie e soldi da concentrare nella battaglia finale.

Rovesciate, queste sono anche le ragioni che tengono viva la sfida di Nikki Haley, sola contro Trump dopo il ritiro del governatore della Florida Ron De Santis. La Haley non ha nulla da perdere e, semmai, molto da guadagnare. Sul capo di Trump pende la spada di Damocle dei processi e delle cause. Tutti i sondaggi testimoniano che una parte dell’elettorato repubblicano farebbe fatica a votare un candidato con la fedina penale sporcata da una condanna penale, e non è detto che lo spauracchio di altri quattro anni con Biden basterebbe a convincerli. La Haley deve tener duro almeno fino al 5 marzo, quando il Super martedì porterà alle urne sedici Stati e un terzo degli americani, e sperare che «qualcosa» succeda prima di allora.

Se nulla avverrà, la marcia di Trump verso la candidatura a quel punto potrebbe diventare trionfale e difficile da ostacolare. Ma anche in quel caso la Haley avrebbe carte da giocare. Rappresenta il volto moderato dei repubblicani e potrebbe piacere anche ai cosiddetti «swing voters», gli indipendenti fedeli ai propri principi piuttosto che alle direttive di partito. È molto decisa sul tema Ucraina e rassicura gli americani che temono le sparate trumpiane tipo «con me la guerra finisce in ventiquattr’ore» oppure «usciamo dalla Nato». E nonostante il nome americanizzato e il cognome del marito, si chiama Nimrata Randhawa ed è figlia di due intellettuali indiani arrivati negli Usa nel 1969. Perfetto per stimolare il voto delle minoranze rassicurando però l’elettorato bianco conservatore, com’era stata quattro anni fa Kamala Harris (madre indiana e padre giamaicano) per le bianche e cattoliche origini irlandesi di Biden. Tutto questo per dire che, anche nel caso quasi certo di una mancata nomination, la Haley potrebbe essere il vice presidente ideale per lo scomposto Trump e le sue radici tedesche. E per questo ora resiste.

© RIPRODUZIONE RISERVATA