Il rilancio del Pnrr, Quirinale al lavoro

POLITICA. Il lavorio intenso del Quirinale di queste settimane è la dimostrazione più convincente di quanto sia alto l’allarme, nei palazzi istituzionali, per l’incerto destino dei progetti del Pnrr.

E anche se il Colle ha smentito con parole ironiche («divertito stupore») le ricostruzioni giornalistiche che raccontavano di colloqui di Mattarella e Gentiloni alla vigilia di un pranzo - che doveva rimanere riservato - con Giorgia Meloni dedicato proprio ai ritardi del Pnrr, la presidenza non ha potuto smentire che un colloquio con Draghi pure c’è stato, e non mesi fa, ma soltanto il 20 marzo, idem con Gentiloni, ed è improbabile che il Capo dello Stato abbia parlato con loro di varia umanità. Il punto è che Draghi si è molto risentito per le voci della maggioranza che sempre con maggiore franchezza attribuivano proprio a lui e al suo governo i ritardi di oggi, mentre è molto facile immaginare che Gentiloni sia andato a rappresentare al vertice istituzionale, quello cui si riferiscono costantemente le cancellerie dei Paesi amici quando si tratta di Italia, tutte le preoccupazioni «sistemiche» di un possibile fallimento del nostro Paese nell’utilizzo della maggior quota del piano europeo post Covid chiamato «Next Generation Eu».

In ogni caso Mattarella ha insistito perché non si cedano le armi anzitempo e si faccia ogni sforzo per portare avanti il Piano in accordo con la Commissione Ue magari rimodulando alcuni progetti. Ecco perché a Palazzo Chigi ha destato molto stupore la dichiarazione del capogruppo leghista Molinari secondo il quale sarebbe logico rinunciare ad alcuni obiettivi finanziati con i prestiti comunitari evitando di indebitarsi con l’Europa «con opere inutili». L’idea di rinunciare a parte dei fondi è l’esatto contrario di ciò che Mattarella e Meloni hanno concordato: semmai si può spostare qualche quota di risorse impegnate su «opere ormai irrealizzabili», per usare l’espressione del ministro Fitto, su altre meno complesse. Ma, appunto le parole di Molinari hanno creato un imbarazzo che le voci ufficiose di Palazzo Chigi si sono preoccupate di smentire subito. Meloni, nel corso della sua visita al «Vinitaly» di Verona, ha ribadito che la trattativa in corso con Bruxelles non prevede le mutilazioni adombrate dall’esponente leghista, e che si va avanti senza dare troppa enfasi «agli allarmismi».

Quanto a Draghi, nessun accenno, se non per dire che i «problemi non si sono creati con le scelte di questo governo». Ora è chiaro che la partita è nelle mani del ministro Fitto e del suo collega all’Economia Giorgetti (anche se il ruolo sul Pnrr dei tecnici di via XX Settembre è stato abbastanza depotenziato rispetto a quanto aveva previsto Draghi) che hanno il compito di discutere con gli euroburocrati. Pare però che questi ultimi si lamentino perché non riescono ad avere dagli italiani qualche indicazione più precisa su quello che vogliono.

È comprensibile la titubanza: se si ottiene la dilazione dei termini di realizzazione dei progetti (per esempio dal 2026 al 2029) si corrono meno rischi di fare la figura di quelli che non sanno spendere i soldi che ricevono; ma nello stesso tempo si diluiscono gli investimenti su più anni: questo impedirebbe al Pil di quest’anno di muoversi dal +0,8 per cento previsto dal Def in via di pubblicazione all’uno per cento tondo che Meloni vorrebbe poter sbandierare come prova dell’efficienza del centrodestra al potere.

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