Il tagliando a gennaio
se si supera il nodo Mes

Quanto rischia il governo? Tanto, se il Pd e Giuseppe Conte si preoccupano di invocare una «verifica» già in gennaio con una «agenda del presidente del Consiglio» cui «dire sì o no, altrimenti si va a votare». Parola di Goffredo Bettini, il suggeritore nel Pd di Nicola Zingaretti e primo vero teorizzatore della necessità di un incontro tra sinistra e grillini. Se Bettini, che ha fatto di tutto perché il governo Conte riuscisse a mettersi in piedi, arriva a usare parole che sono una specie di penultimatum, vuol dire una cosa sola: che il Pd ha le tasche piene di Di Maio e di Matteo Renzi che un giorno sì e l’altro pure prendono le distanze dal governo, lo criticano e danno l’impressione di segare il ramo su cui Conte è assiso e che viene retto, alla fine, solo dai democratici. Non a caso Conte si allinea alla richiesta del Pd: «Un minuto dopo l’approvazione della legge di Bilancio faremo un tagliando al governo sulle cose da fare fino al 2023».

Prospettiva che sembra, al momento, francamente ottimistica. Il punto è invece se il governo riuscirà ad arrivare a gennaio, altro che 2023. E lo si capirà domani mattina quando Conte si presenterà al Senato per la seconda volta a parlare di Mes alla vigilia del Consiglio europeo. La maggioranza proverà a presentare un documento comune su cui votare. Di cui c’è già una bozza che però non si sa se abbia una maggioranza. La bozza è abbastanza annacquata: si dice sì alla riforma del Salva-Stati a patto che venga rimossa la ristrutturazione automatica del debito dello Stato che si rivolga all’Europa per essere aiutato in un momento di difficoltà finanziaria. Peccato che la ristrutturazione automatica del debito non c’era nella vecchia versione del Fondo e nemmeno nella nuova.

C’è sì la possibilità che accada sulla base di una decisione collegiale ma non l’automatismo, che è cosa ben diversa. E infatti Gianluigi Paragone, il senatore M5S dissidente che vorrebbe tornare all’alleanza con Salvini, parla «di presa in giro»: «Abbiamo promesso agli elettori una inversione a U dell’Europa, e invece l’inversione la stiamo facendo fare al Movimento». E così si riaccende l’allarme rosso di palazzo Madama dove anche questo governo è in bilico, o meglio: ha una maggioranza risicatissima. Basta che una decina di senatori si astenga (al Senato vale un «no») perché il governo vada in minoranza. Attualmente i contrari non sono arrivati a dieci: ma sono a otto. Si capisce dunque il nervosismo.

Prova a stemperare gli animi Paolo Gentiloni che promette a breve una revisione del Patto di Stabilità che, dice, «è nato durante la crisi finanziaria che oggi non c’è più» e dunque «va rimesso in linea con le necessità di oggi, non con quelle di ieri». Ma sono per il momento solo parole. Il punto è il documento come uscirà dai conciliaboli dei partiti di maggioranza coordinati dal ministro degli Affari Europei Amendola sotto la supervisione di Roberto Gualtieri, il responsabile dell’Economia. Il quale ha provato anche lui a mandare segnali di dialogo con i critici: all’ultima riunione dell’Eurogruppo si è opposto alla proposta tedesca di una ponderazione del rischio dei titoli di Stato che dovrebbero beneficiare di una assicurazione europea.

Il punto però resta politico. Di Maio vuole la crisi, sì o no? Lui giura di no e anzi propone un «cronoprogramma di riforme» che potrebbe anche andare d’accordo con l’«agenda» di Bettini. Ma nel frattempo si scopre che Matteo Renzi e Matteo Salvini sono d’accordo su una riforma elettorale proporzionale con sbarramento. Una consonanza che fa riemergere i sospetti di un’intesa segreta tra i due.

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