Il Trumpismo economico assalito dalla realtà

MONDO. C’era una volta, non molto tempo fa, l’idea diffusa che le agenzie di rating americane avessero un particolare occhio di riguardo per gli Stati Uniti. Un bias o un pregiudizio positivo che metteva al riparo Washington dalla severità con cui le stesse agenzie valutavano invece i conti pubblici di tutti gli altri Stati sovrani.

Per questo, la settimana scorsa, ha destato notevole impressione il fatto che l’agenzia Moody’s abbia deciso di privare gli Usa della loro tripla A, cioè del voto più alto assegnato ai debiti pubblici del pianeta, sinonimo di estrema solidità delle finanze pubbliche e quindi sicurezza dell’investimento. Addio voti massimi - ha spiegato Moody’s - perché il deficit pubblico di Washington si ampia da troppo tempo e perché aumenta il costo del debito esistente a causa degli interessi in rialzo.

Le idee economiche di Trump

Già oggi, d’altronde, per ogni 7 dollari di spesa pubblica gli Stati Uniti devono impegnare un dollaro per pagare gli interessi sul proprio debito pubblico. L’inizio della fine dell’eccezionalismo statunitense in materia di indebitamento è soltanto l’ultimo evidente assalto che la realtà sta lanciando contro le idee economiche più radicali ed estemporanee dell’Amministrazione Trump. I 36mila miliardi di debito accumulati - pari al 123% del Pil - non possono ovviamente essere imputati all’attuale Presidente, ma quest’ultimo ci ha messo del suo nell’accelerare l’incremento degli interessi, cioè del rischio percepito dai creditori sullo stesso debito, e adesso lui e il Congresso vedono di conseguenza ridursi lo spazio di manovra fiscale. Si tratta di uno dei segnali più forti che i cosiddetti «mercati», cioè i risparmiatori che scelgono di organizzarsi e di investire, stanno inviando alla Casa Bianca dopo il Liberation Day dello scorso 2 aprile, celebrato a suon di dazi generalizzati nei confronti di tutti i Paesi del mondo. Se l’economia rallenta per colpa del protezionismo, è il ragionamento, allora il sistema farà più fatica a smaltire il debito, ergo i creditori possono chiedere di essere pagati di più per comprarne di nuovo. Non si tratta peraltro dell’unico modo in cui la realtà sta bussando alla porta della Casa Bianca. Trump e i suoi se ne sono accorti, e hanno già provato a correre ai ripari: così si spiegano, secondo molti osservatori, la sospensione dei dazi reciproci (quelli oltre il balzello base del 10%) fino a luglio, poi l’armistizio commerciale con la Cina e il primo accordo di libero scambio portato a termine con il Regno Unito.

Il grande spavento

Per tutta risposta le Borse a stelle e strisce sembrano essersi riprese dal forte spavento di due mesi fa, sono tornate a livelli quasi da record, e gli analisti vedono di nuovo diminuire le probabilità di una recessione negli States. I danni degli annunci trumpiani però non sono finiti. Nel 1° trimestre dell’anno sia le imprese sia i consumatori hanno fatto registrare forti acquisti nel tentativo di anticipare ed evitare i rincari dovuti all’entrata in vigore dei dazi. Allo stesso tempo tra le imprese sembra rafforzarsi la tendenza a risparmiare e a tagliare i costi, mentre svanisce l’intenzione di programmare nuovi investimenti. A questo si aggiunge il timore di una fiammata inflazionistica. E soprattutto, per cittadini e imprenditori, il futuro prossimo rimane caratterizzato da una forte incertezza, ingrediente principe di ogni rallentamento economico. Per lasciarsi davvero alle spalle questa brusca frenata che l’Amministrazione ha (masochisticamente) impresso alla congiuntura americana, il bagno di realtà dovrà continuare fino in fondo. Nel negoziato con l’Unione europea e gli altri Paesi, Washington sarà indotta scendere a patti con gli effetti dannosi del protezionismo generalizzato, dovendo prediligere tutt’al più un uso mirato di dazi per ragioni di sicurezza nazionale o a tutela di pochissimi settori che dovranno nel frattempo cogliere la sfida del cambiamento e non crogiolarsi dietro barriere anti-concorrenziali.

I 500 mila posti di lavoro vacanti

L’Amministrazione dovrà inoltre rendersi conto che l’obiettivo (legittimo) di una reindustrializzazione del Paese è obbligato a fare i conti con carenze strutturali tutte «made in Usa», come i 500mila posti di lavoro vacanti che già oggi le aziende manifatturiere a stelle e strisce faticano a coprire. Per maturare una simile consapevolezza, non basterà modificare quel che accade alla dogana.

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