Inizia la partita tra Fdi e alleati

La parola che Giorgia Meloni ha ripetuto più volte nel suo breve discorso notturno a commento del risultato del voto, ossia della sua vittoria, è stata: responsabilità. Seguita dalla promessa che il suo sarà il governo di tutti gli italiani, anche di quelli che considerano l’avvento del «governo italiano più a destra di sempre dopo il Fascismo» (Cnn) come un pericolo mortale per la democrazia.

Responsabilità e rappresentatività, dunque, per una leader che riesce a toccare due tasti con uguale disinvoltura: quella del comizio brutale e quello del discorso istituzionale. Naturalmente ora dovrà privilegiare il secondo anche se, nel chiuso delle stanze delle trattative, Giorgia sfodererà la sua grinta proverbiale. Problemi ne ha tanti.

Quelli dell’Italia, non ne parliamo, ci vorrebbe l’intero articolo per fare l’elenco. Ma lei ora ha soprattutto quelli del governo: deve mettere assieme una squadra che a) sia accettata dal suo elettorato e non cominci subito a deluderlo; b) non trovi l’opposizione di Mattarella; c) non spaventi i mercati finanziari, la Commissione europea, gli americani e la Nato; d) non sia applaudito fragorosamente da russi, ungheresi, polacchi, franchisti spagnoli e lepenisti francesi, e) soddisfi gli appetiti non tanto delle correnti di FdI - quelle obbediscono a lei come soldatini - quanto gli alleati, cioè una Forza Italia ringalluzzita e una Lega schiaffeggiata e perciostesso ansiosa di non mostrarsi umiliata e marginalizzata. La Meloni ha cominciato con l’incontrare Antonio Tajani, l’uomo di Berlusconi (già, cosa fare di Berlusconi?) ma è la Lega il vero problema.

La Lega ieri al Consiglio federale ha confermato all’unanimità la fiducia al segretario Salvini nonostante il disastroso 8 e spiccioli per cento e addirittura la trombatura di Bossi. Chi si aspettava sfracelli, è rimasto deluso. Chi pensava alla rivolta dei governatori regionali e di Giancarlo Giorgetti, è stato smentito. Chi auspicava che i leghisti seguissero il consiglio di Roberto Maroni («Serve un nuovo leader») ha capito che non è aria, almeno per ora. Si ha notizia che la base del partito stia ribollendo, si sa di raccolta di firme, ma al vertice si ostenta calma e gesso: tutti uniti con Matteo. Che «non vede l’ora di essere protagonista del futuro governo». E infatti i capi leghisti lo vorrebbero ministro. Problema: Salvini vuole tornare al Viminale, ma non se ne parla, e la soluzione allora potrebbe essere quella di affiancare la Meloni con due vicepremier: lui, appunto e Tajani. Potrebbe essere una buona soluzione posto che al vicepremier sia dato qualcosa da fare. Vedremo: la partita non si annuncia facile anche se dal Colle scendono inviti a fare presto, a trovare la quadra nel mezzo delle procedure costituzionali per l’avvio della nuova legislatura (anche perché bisogna fare di corsa la legge di stabilità, e probabilmente per evitare l’esercizio provvisorio, bisognerà mettersi al tavolino con Draghi e Daniele Franco, magari quest’ultimo ministro uscente ed entrante dell’Economia o almeno del Tesoro).

Insomma, se per il momento il «caso Salvini» non si apre nella Lega per non far scoppiare la coalizione alla sua prima prova, comunque la formazione della squadra presenterà i suoi grattacapi per Giorgia la quale ben sa che la sua leadership – consacrata dal numero dei voti, superiore di gran lunga alla somma di tutti i suoi alleati – non è intimamente ben digerita né da Salvini né da Berlusconi.

Se si tormentano i vincitori, figuriamoci gli sconfitti. Tutti tranne uno: Giuseppe Conte. Il quale ha fatto un mezzo miracolo, ha trasformato una Caporetto in una Vittorio Veneto, essendosi confermato terzo partito italiano pur perdendo la metà dei voti del 2018; poi si è impadronito del partito che adesso è suo, solo suo, senza che lo ostacolino Grillo, Di Maio, Fico e altri «senatori» (e pensare che Di Maio, che adesso non è nemmeno deputato, lo aveva scelto come ministro di terza fila del suo «governo ombra»), e infine si prende il lusso di alzare il prezzo per qualunque forma di dialogo con le altre opposizioni. A cominciare dal Pd, il più mazzolato. Letta se ne andrà, e con lui sparirà il veto posto su una collaborazione con il M5S reo di aver fatto cadere Draghi. Al posto di Letta arriverà qualcuno che di sicuro vorrà riannodare l’alleanza con i «contiani» (non chiamiamoli più grillini, ormai è andata). Già, ma chi? Cominciano a fiorire le candidature (Bonaccini, Schlein, Nardella, Ricci, De Micheli…) proprio quando si diffonde sempre di più l’idea che il Pd sia un partito fallito, da chiudere e semmai riaprire in tutt’altre vesti. Vasto programma, direbbe de Gaulle.

Infine la coppia Calenda-Renzi. Hanno mancato di parecchio l’obiettivo, non sono il terzo ma addirittura il sesto. La botta è stata pesante. Però promettono di farsi sentire e sventolano le analisi del voto che li danno primo partito tra i giovani (alla Bocconi hanno preso il 37 per cento). C’è solo un’incognita: che Matteo & Carlo, col carattere che si ritrovano, comincino subito a litigare.

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