Instabilità, il conto si paga sullo spread

L’opportunistica e del tutto irresponsabile scelta di alcuni leader di partiti in declino di determinare di fatto le dimissioni di Mario Draghi, prosegue nel solco «furbesco» e «perverso» che ha caratterizzato i nostri governi degli ultimi trent’anni, con puntuali, pericolosissime ricadute in termini di peso specifico politico-istituzionale e di credibilità internazionale.

Dalla caduta del governo Berlusconi (2011) ad oggi, questa instabilità si è ancor più accentuata per il crescente indebolimento della classe politica, che ha spianato la strada al vorticoso ingresso in parlamento del M5s, con le sue note e chiassose posizioni sovraniste e antieuropee, corredate dallo slogan populista e antimeritocratico «uno vale uno».È opinione diffusa tra molti economisti e politologi, che proprio questa nostra cronica condizione d’instabilità governativa, ancor più dell’enorme debito pubblico, sia alla base dei ricorrenti innalzamenti dello spread, che sono costati tantissimo in termini di interessi corrisposti sulle emissioni di titoli di Stato. Ciò è confermato da un confronto con i principali Paesi europei. Questi, dopo la pandemia hanno registrato una sensibile crescita del loro debito e, conseguentemente, un consistente aumento del rapporto deficit/Pil salito intorno al 100%.

Nonostante ciò, il loro spread si è attestato ben al di sotto dei 100 punti base, mentre il nostro è cresciuto al di sopra dei 200 punti. Un’ulteriore conferma di quanto sia stata l’instabilità dei governi e la scarsa credibilità della nostra classe politica a pesare sull’andamento dello spread lo testimonia il confronto con la situazione della Francia. Questa, pur tra vari contrasti politici, grazie a una buona legge elettorale si è contraddistinta per la stabilità dei suoi governi. Ebbene, il suo spread si attesta oggi intorno ai 50 punti base, pur avendo un debito pubblico (2.813 miliardi di euro) superiore al nostro (2.678). Difficile sperare che questa nostra grave condizione d’instabilità possa essere superata dopo le elezioni. A causa di una raffazzonata legge elettorale, realizzata per accontentare tutti, sarà infatti ben difficile costituire maggioranze stabili con coalizioni che al loro interno parlano lingue diverse e che sono state costruite per vincere piuttosto che per governare.

Qualche elemento di rassicurazione e di conforto deriva dal fatto che la Bce si è dichiarata pronta a utilizzare lo strumento dello «scudo anti-spread» per acquistare i titoli dei Paesi che potranno essere sottoposti al ricatto della speculazione internazionale. È previsto, però, che l’applicazione dello scudo dovrà essere limitata nel tempo e, soprattutto, dovrà essere giustificata dall’esistenza di una situazione finanziaria, economica, sociale e politica del Paese che rendano ingiustificabili gli attacchi speculativi. Va sottolineato che per quanto riguarda la situazione politica, un peso non indifferente è assegnato alla condizione di stabilità dei governi, che è giudicata una delle cause principali dell’aumento del debito. Si stima che dal 2012 al 2021, periodo di maggiore instabilità dei nostri governi, lo spread abbia comportato un costo di circa 265 miliardi di euro (grosso modo come un intero Pnrr) pagati in più dall’Italia rispetto al tradizionale «benchmark» della Germania. Ciò ha generato un debito pubblico aggiuntivo che non è dipeso dalla gestione caratteristica del bilancio pubblico, bensì dal sovrappiù d’interessi che i mercati ci hanno costretto a pagare.

Difficile immaginare un altro paese che, trovandosi nelle nostre così precarie condizioni socioeconomiche, decida di fare a meno di un presidente del Consiglio quale Mario Draghi, che rappresentava il più forte scudo anti-spread dietro al quale potessimo ripararci.

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