Isolazionisti, la versione
del nuovo Millennio

Fallimento, catastrofe, disastro: si sprecano le espressioni di sconcerto misto a sorpresa con cui i media di tutto il mondo, una buona volta concordi, archiviano la conclusione della missione Usa in Afghanistan. Lo sconcerto nasce dal fallimento completo dell’operazione avviata vent’anni fa e costata all’America miliardi di dollari e una carneficina di suoi uomini. Un fallimento militare: diversamente non si può chiamare la sconfitta della prima potenza mondiale da parte di un nemico, meno e peggio armato. Ma fallimento
anche politico: checché ne dica Biden, l’intervento deciso da Bush nel 2001, se non prevedeva l’esportazione della democrazia in una società teocratica, ambiva quanto meno a radicare valori e modelli di comportamento capaci di avviare un processo di modernizzazione in uno dei Paesi più arretrati e poveri del mondo. Certo, il ritiro era scontato. L’aveva annunciato già Obama (con Biden vicepresidente).

Era stato confermato da Trump che lo aveva addirittura ratificato stipulando l’accordo di Doha con i talebani. Nessuna sorpresa quindi, tanto meno sconcerto, per l’annunciato ritorno a casa dei soldati americani. Si capisce che per l’opinione pubblica americana la misura fosse colma. Non era più giustificabile consumare altri sacrifici, subire altri lutti per una causa troppo generica, oltre che troppo ambiziosa: la costruzione di una democrazia in un Paese islamico.

Non era scontato, invece, e nemmeno prevedibile, un ritiro tanto precipitoso e rovinoso come è stato. Non era un passo obbligato gettare le armi per terra: si era aspettato per vent’anni, non sarebbero stati due mesi in più a fare la differenza. Non era obbligata nemmeno la decisione di annunciare (come ha fatto Trump) l’intenzione di smobilitare prima di aver stipulato un accordo col nemico: equivaleva a una resa. Non era una scelta obbligata scappare a gambe levate senza avere il tempo di mettere in salvo quante più vite possibili consegnando, di fatto, nelle mani del nemico i propri armamenti e senza nemmeno accennare a un minimo di resistenza.

La verità è che Biden è troppo determinato a compiere una netta virata in politica estera per perdere anche un solo giorno nel chiudere con la spedizione in quel martoriato Paese. Costi quel che costi, deve aver pensato il presidente americano, ma gli Usa devono assolutamente chiudere con «l’era delle grandi operazioni militari». D’ora in poi c’è una preoccupazione dominante: «Pensare alle minacce del futuro, non a quelle del passato», anche con l’alea di perdere la credibilità internazionale, alleati compresi.

È il trionfo dell’isolazionismo versione nuovo millennio, vecchia propensione dei repubblicani, ora fatta propria anche dai democratici. Incombe la sfida con la Cina. Il teatro della nuova guerra fredda si è spostato a oriente. Quanto agli europei, questi, quando se ne accorgeranno, sarà sempre troppo tardi. E invece gli europei cosa fanno? Si lamentano di essersi trovati in Afghanistan davanti al fatto compiuto, senza nemmeno esser stati consultati. Soffrono della sindrome dell’abbandono. Non hanno ancora elaborato la novità (si fa per dire, perché vecchia ormai di più di vent’anni) di non esser più protetti dall’ombrello americano. In metafora, gli europei si comportano come quelli che per anni hanno fatto conto di potersi riparare sotto l’ombrello del vicino. E quando il vicino si sposta altrove, si lamentano di esser stati abbandonati. Non sarebbe il caso di procurarsi un proprio ombrello di protezione?

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