Italia-Libia: fra gli aiuti e i migranti c’è altro

Era la prima visita di Stato del presidente del Consiglio Mario Draghi, un atto significativo di politica estera. E la scelta è ricaduta sulla Libia, a conferma di quanto questo Paese sia strategico per l’Italia. Non solo perché dalla «quarta sponda» del Mediterraneo parte l’80% dei migranti diretti in Italia via mare, non solo per i legami storici fra Roma e Tripoli ma soprattutto perché fino a qualche mese fa la Libia in guerra era un pericoloso buco nero, una terra di nessuno affacciata sulla nostra nazione e divisa in due dal 2014: a occidente il governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dalla Turchia, dall’altra il potere del generale Khalifa Haftar, appoggiato da Egitto, Russia ed Emirati Arabi Uniti.

L’apice dello scontro fu il tentativo di Haftar di conquistare Tripoli con un attacco sferrato nell’aprile 2019, un assedio di 14 mesi fallito grazie all’intervento dei militari di Ankara. Poi il cessate il fuoco siglato a Ginevra nell’ottobre 2020 e dal novembre successivo il lungo negoziato sotto l’egida dell’Onu con 75 rappresentanti libici, sfociato nella nomina di un governo provvisorio guidato da Abdul Hamid Dbeibah e nella previsione di elezioni il 24 dicembre prossimo, se nel frattempo non riprenderanno gli scontri.

L’Italia negli ultimi anni aveva perso influenza a Tripoli. Draghi, nell’incontro con il suo omologo pro tempore, ha parlato di «momento unico per ricostruire un’amicizia» e per rilanciare la partnership attraverso un’altra ricostruzione, che dovrebbe avvenire «in campo energetico e infrastrutturale, sanitario e culturale». La rinascita dell’aeroporto della capitale dovrebbe essere affidata a un consorzio di aziende italiane. Andrà poi realizzata l’autostrada costiera di 1.750 km che ha come terminali Tunisia ed Egitto, secondo gli accordi siglati nel 2008 dall’allora premier Silvio Berlusconi e dal colonnello Muammar Gheddafi, come risarcimento per i danni causati dall’Italia durante il periodo coloniale, con un costo stimato di tre miliardi di euro. Dovrebbero essere stretti inoltre vari accordi per il settore energetico - la Libia è uno dei principali esportatori di petrolio con una capacità produttiva di 48 miliardi di barili e l’italiana Eni ha sempre avuto un ruolo importante che negli ultimi anni è stato insidiato soprattutto dalla Turchia - oltre che per quello sanitario: Roma ha promesso a Tripoli aiuti e forniture per affrontare la pandemia da coronavirus.

I due leader hanno parlato anche di immigrazione e della gestione dei flussi nel Mediterraneo, per i quali la Libia ha ricevuto centinaia di milioni di euro in finanziamenti e mezzi dall’Italia e dall’Unione europea, con esiti quantomeno discutibili. La Guardia costiera è infatti infiltrata da trafficanti e milizie mafiose. «Esprimiamo soddisfazione - ha detto il nostro presidente del Consiglio - per quello che la Libia fa nei salvataggi. Ma il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario». Una frase che ha scatenato critiche da sinistra ma anche dall’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale. Più che di salvataggi, Draghi avrebbe dovuto parlare di respingimenti in mare. I migranti fermati sulle spiagge vengono internati in lager e sottoposti a violenze, torture e stupri. Il premier avrebbe dovuto invece commentare con durezza una situazione già denunciata dall’Onu.

Ci sono tre punti inoltre che vanno rilevati e che l’incontro fra Draghi e Abdul Hamid Dbeibah non ha affrontato o resi pubblici. La Libia è solo il terminale dell’ampio flusso migratorio che parte dall’Africa centrale. Se non si va alle radici dell’emigrazione è illusorio pensare di fermare questo flusso solo con accordi con Tripoli. Il flusso troverà altri sbocchi. L’esempio positivo è quello dell’Albania: gli sbarchi irregolari sulle coste pugliesi si sono fermati non per i respingimenti ma perché il Paese delle aquile ha trovato stabilità politica e un minimo di crescita economica, grazie anche alle rimesse dei suoi emigrati lavoratori.

Nel vertice non si è parlato nemmeno della situazione del Sahel, la regione confinante con la Libia e infestata da gruppi jihadisti (in particolare Mali, Burkina Faso, Niger e Nigeria), trafficanti di droga e di uomini. La Francia ha schierato 5 mila militari ma ha chiesto aiuto ad altri Stati europei, tanta è la forza di queste milizie che in futuro potrebbero destabilizzare anche la Libia.

Ultimo punto: Turchia e Russia, presenti nella «quarta sponda» con loro militari e mercenari, resteranno a guardare o punteranno ad accaparrarsi le risorse energetiche libiche? Le loro ambizioni non sono dichiarate ma intendono usare la Libia come trampolino di lancio verso l’Africa centrale e le sue ricchezze. Nel deserto libico Mosca ha appena costruito una barriera di terra lunga 70 km per proteggere le aree di Haftar e i pozzi di greggio. Non proprio un gesto di pace.

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