Italia post-Covid, paradosso lavoro

Italia. Dev’essere un Paese strano, il nostro, se si parla sempre di lavoro che manca mentre le imprese lamentano scarsità di personale. E pensare che questo succede in emergenza salariale. Un paradosso che, nel denunciare lo squilibrio fra domanda e offerta, lo supera perché diventa il cuore e il simbolo di tutto ciò che non va nel nostro mercato del lavoro.

Abbiamo il record europeo dei Neet (i giovani che né studiano né lavorano), il dilagare del lavoro nero impunito, finti tirocini, partite Iva fittizie, un tasso d’occupazione pur migliorato ma ancora lontano dagli standard europei (quello femminile supera a fatica il 50%), una giungla di circa 900 contratti di lavoro nazionali, compresi quelli pirata. Non c’è adeguata integrazione fra il sistema educativo e formativo con quello economico e produttivo. L’ascensore sociale è fermo, le nuove generazioni nutrono aspettative decrescenti. In un’Italia che invecchia il declino demografico per la prima volta si sta riflettendo sul mercato del lavoro, perché restringe l’area centrale, quella con l’età più matura. Nell’ultimo trentennio abbiamo perso salario reale. Scontiamo due storici problemi: bassa produttività e bassi salari netti, sapendo che i salari reali si possono alzare solo aumentando la produttività ed evitando così che il valore aggiunto venga trasferito altrove. In più il lavoro è l’ambito maggiormente tassato dell’economia e intanto si ripartisce male la ricchezza generata.

Da anni tutti i governi si sono esercitati al capezzale del paziente: un fare e un disfare continuo a pezzetti, un’infinita tela di Penelope costruita e dismessa. Risultato: una fortissima instabilità giuridico-istituzionale, un cantiere mai finito che produce incertezza e lascia tutti insoddisfatti. Per ora abbiamo visto la tendenza a rendere più costosi i contratti a termine e a riequilibrare, nell’occupazione femminile, il rapporto famiglia-lavoro, mentre i risultati migliori sono venuti dal basso: accordi aziendali, welfare di fabbrica. Là dove le forze della produzione costruiscono relazioni, intercettano i nuovi bisogni e producono mutamento sociale.

L’altro versante del problema, mentre avanza l’intreccio uomo-macchina, è la profonda mutazione della geografia umana del lavoro, cambiandone il senso stesso. Se il ’900 è stato il secolo del lavoro, tra sudore e fatica, siamo ormai immersi nella fase dei lavori e delle tante culture del lavoro. Sappiamo che il lavoro è emancipazione personale e collettiva, appartiene alla sfera dei diritti di cittadinanza: un’esperienza valoriale e identitaria prima ancora che economica.

Il Covid e le altre crisi hanno accelerato e radicalizzato processi già in corso in un contesto che si vuole di svalutazione del lavoro e in cui – dice il Censis – non funziona più il tradizionale legame lavoro-benessere economico-democrazia. Anche da noi, nel post pandemia, ha impattato la Grande Dimissione esplosa in America, cioè la scossa tellurica dell’onda di improvvisi abbandoni dei lavoratori. Un po’ l’effetto psicologico del Covid che ha imposto nuove priorità («Tanto si vive una sola volta»), un po’ la ricerca di soluzioni migliori per contrastare un adattamento al ribasso e stress da competizione. Il cambiamento culturale sta portando alla perdita di centralità esistenziale del lavoro. Il Censis avverte che l’87% degli occupati dichiara di dedicare troppo tempo al lavoro e la qualità è una variabile sempre più importante, testimoniata da tre fattori: diffusione dello smart working (è la seconda richiesta che si fa ai reclutatori), esperimenti per accorciare la settimana lavorativa, aumento dei contratti a tempo indeterminato per trattenere e incentivare i dipendenti.

Un’indagine per Federmeccanica, realizzata dal sociologo Daniele Marini di Community Research Analysis e pubblicata dal «Sole 24 Ore», conferma che i giovani privilegiano il percorso di carriera e la mobilità, meno legata al posto fisico. La parola chiave è «soggettività». I soldi contano, eccome, tuttavia gli aspetti immateriali di soddisfazione individuale sono in fase di sorpasso. Gli stessi ceti operai oggi si identificano più con i consumi e assai meno con l’orgoglio di classe. Il lavoro è più scelta che necessità: con sempre maggior frequenza sono le persone a scegliere il posto di lavoro, più che le aziende a selezionare il candidato. C’è altro: i giovani assegnano un «prestigio» elevato a influencer e blogger, ben oltre la quota riservata a insegnanti, artigiani e commercianti. Nell’arco di 40 anni, osserva Marini, lo status sociale del lavoro manuale, operaio e contadino, è crollato e ci sembra sia identificato ancora con i parametri superati del ’900. Il valore del lavoro appare anche qui sganciato dall’importanza soggettiva del suo senso. Uno stacco tra figli e padri e rappresentazioni del lavoro che suonano stonate nella realtà del Nord dell’Industria 4.0 dove tanti operai non vestono più la tuta blu, piuttosto camici bianchi e stanno alla consolle elettronica. I manager sono visti come leader. Si aprono orizzonti critici in un quadro estremizzato: fra chi può permettersi di scegliere e chi accetterebbe qualsiasi posto pur di arrivare a fine mese. Il paradosso delle due carovane opposte, descritto dal sociologo Aldo Bonomi: c’è chi fugge dal lavoro in cerca di significato e chi ancora fugge dalla disoccupazione.

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