Kiev-Mosca, la pace non dipende solo da loro

Il commento. Negli ultimi giorni, come del resto fa con ciclica regolarità, Vladimir Putin ha detto che con l’Ucraina, alla fine, bisognerà pur trovare un accordo. Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino e unica voce autorizzata del Capo, è andato anche più in là. Ha detto che se Zelensky volesse, l’accordo si potrebbe trovare «anche domani». Le dichiarazioni che arrivano da Mosca non sono molto diverse da quelle che di tanti in tanto arrivano da Kiev e, per buona misura, da Berlino o da Parigi.

E non v’è motivo di dubitare, da questo punto di vista, della «buona fede» dei protagonisti, o piuttosto della loro rassegnazione: è chiaro ai contendenti che nessuno di loro otterrà tutto ciò che dice di volere e che quindi, non potendo combattere in eterno, prima o poi un compromesso andrà trovato. Ma quale sarà il punto di caduta? A quali condizioni, anzi, alle condizioni di chi, verrà messa la firma fatale?

Quando si arriva a questo punto, ogni accordo torna a sembrare impossibile. Gli ucraini chiedono di tornare ai confini del 1991, i russi di tenersi la Crimea, il Donbass (quello controllato ora e le parti che, dicono loro, sono ancora da «liberare») e i territori di recente annessi alla Federazione. Il che sarebbe vero se un eventuale negoziato dipendesse solo ed esclusivamente dai due Paesi in guerra. Ma non è così. La «volontà» dell’Ucraina non può non essere influenzata dall’appoggio occidentale, fatto di enormi quantità di armi, denaro, appoggio materiale e logistico, intelligence, know how e, siamo franchi, chissà che altro. Un esempio. Gli Usa stanno approvando il nuovo budget per la Difesa del 2023: 858 miliardi di dollari che già prevedono 800 milioni di aiuti militari per l’Ucraina. E qualcosa di simile deve succedere anche per la Russia.

Di recente, un gruppo di esperti militari inglesi ha esaminati i resti di alcuni missili russi caduti su Kiev e dintorni e ha appurato che si tratta di missili prodotti dopo l’estate, addirittura dopo settembre. D’accordo, la resistenza del sistema russo è stata sottovalutata. È chiaro che le sciocchezze sui militari russi costretti a usare i chip dei frigoriferi avendo finito quelli «buoni» erano, appunto, solo sciocchezze. Però un suo filone di rifornimento, da qualche parte, la Russia deve averlo conservato e noi francamente abbiamo il sospetto che la Cina possa saperne qualcosa. Cina che oggi conta per il 25% di tutti gli scambi commerciali in entrata e in uscita dalla Russia.

Si arriverà, dunque, a un negoziato. Ma solo quando gli influenti attori esterni di questo conflitto, primi fra tutti gli Stati Uniti e la Cina, avranno deciso che sarà giunta l’ora. Al momento sono ancora troppi coloro che sono convinti di poter trarre guadagno da un conflitto prolungato, quindi sempre più costoso e cruento per chi combatte. Sono soprattutto i Paesi della prima linea europea antirussa, quella nata con l’allargamento Nato e Ue tra fine anni Novanta e primi Duemila: Polonia, Baltici, Repubblica Ceca, cui si uniscono volentieri i Paesi del Nord Europa fino al Regno Unito. Sono la testa d’ariete della Nato che infatti, per bocca del segretario generale Jens Stoltenberg, ripete che l’eventuale fine della guerra non poterà comunque a una normalizzazione dei rapporti con la Russia. Comprensibile, se vogliamo. Ma perché, allora, la Russia dovrebbe smettere di combattere in Ucraina? Al clima di questo tempo si è purtroppo aggregata anche Angela Merkel, che si è spinta a dire che gli Accordi di Minsk firmati tra Russia e Ucraina nel 2015, e di cui lei con Macron era garante, servivano solo a dare tempo a Kiev per riarmare. Triste comparsata finale per quella che fu una grande leader.

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