La Germania
senza centro
di gravità

L’uscita dall’era Merkel è un rebus per la Germania, un Paese che solitamente vanta titoli per stabilità ed efficienza. Questo sembrano affermare i risultati delle elezioni di ieri, le prime nella stagione post pandemia. I numeri (exit poll e proiezioni fino a tarda ora) parlano di una corsa all’ultimo voto, di un testa a testa: i socialdemocratici di Scholz sarebbero avanti di un punto e mezzo, un po’ meno delle previsioni, rispetto ai cristiano-democratici di Laschet. Terzi i verdi di Annalena Baerbock, che hanno sprecato in campagna elettorale l’obiettivo della loro «rivoluzione di velluto», quarti i liberali.

L’estrema destra, già presente per la prima volta in Parlamento, perde qualcosa e sarà interessante vedere il voto nell’Est dove i populisti hanno lo zoccolo duro. La sinistra radicale esce dimezzata. La Spd di Scholz ha rivendicato a caldo il mandato di governo e anche la Cdu, gli orfani di Merkel con i loro gemelli bavaresi, non si dà per vinta e si propone per la guida della cancelleria. In attesa dei risultati definitivi, le principali ipotesi sono due: un esecutivo composto da socialdemocratici, liberali e verdi, oppure uno formato da cristiano-democratici, verdi e liberali.

La Grande Coalizione a due di Merkel sarà in ogni caso sostituita da una maggioranza a tre, in cui entreranno verdi e liberali nel ruolo di junior partner. Ci vorrà tempo: le intese plurime prevedono accordi sottoscritti fino alla virgola e per il governo uscente erano stati necessari circa sei mesi. Non solo: bisogna aspettare la composizione esatta del Bundestag, perché il numero dei parlamentari varia in base al gioco aritmetico del sistema elettorale tedesco che è misto (proporzionale e maggioritario). La Spd guadagna circa 6 punti rispetto al disastro storico delle ultime elezioni del 2017, mentre i democristiani, fin qui il primo partito, scendono al peggior risultato di sempre. L’incertezza di questa maratona deriva dall’alto numero degli indecisi (40%), quota senza precedenti, a conferma di un Paese combattuto fra la fisiologica necessità di aprire una nuova fase dopo i 16 anni della ragazza venuta dall’Est e la paura del cambiamento, parola pronunciata con prudenza nel costume tedesco.

Anche la Germania, suo malgrado, segue la traiettoria occidentale del declino dei partiti di massa: democristiani e socialdemocratici oggi coprono più o meno il 50% dell’elettorato quando negli anni ’70-’80 arrivavano all’80-90%. Una caduta però che non si riflette nel Sistema Paese: nella terra del capitalismo renano e dell’economia sociale di mercato, nella prima manifattura d’Europa, pur all’interno di serie disuguaglianze non del tutto riparate (differenze socio-economiche fra Est e Ovest, distribuzione della ricchezza ineguale geografica e per ceti), il Pil pro capite nel 2005-2020 è cresciuto più di tutti fra i membri del G7. Il fatto nuovo è che frantumazione dell’elettorato e dispersione delle preferenze galleggiano nell’assenza di un centro di gravità, soprattutto in questa circostanza decisiva. Il quadro dei partiti disegna una quadriglia in cui le due coppie hanno un sostanziale equilibrio al loro interno. Mancano però, almeno a prima vista, il partito pivot, quello veramente dominante, e il leader. Anche da questo versante si sente la mancanza di Merkel: un vuoto che probabilmente peserà pure sulla proiezione europea. Scholz è stato un buon ministro delle Finanze, ma è privo di calore: se tocca lui, dovrà costruirsi i connotati da numero uno. Laschet, uomo della vecchia guardia merkeliana, non ha brillato di suo.

I due principali partiti vivono un equilibrio instabile. Scholz esprime la sintesi tra un riformismo di governo e la sinistra dell’elettorato militante. Laschet deve vedersela con il fianco destro interno, pronto alla rivincita insieme con i bavaresi. Senza un punto di mediazione, i due partiti popolari rischiano di rinchiudersi in scelte identitarie, là dove la cancelliera, almeno nei suoi momenti migliori, aveva saputo allargare il perimetro della propria offerta politica. Detto in altro modo: un sostanziale allineamento, una vittoria che assomiglia a un pareggio, chiama più di prima a una responsabilità condivisa. Non c’era dubbio che le elezioni avrebbero riaffermato l’opzione europeista e del resto è proprio la Grande Coalizione uscente ad aver dettato l’agenda. Comunque finisca, non sono previsti scossoni per Italia, Francia e Spagna, il fronte delle politiche espansive in economia. Qualche dissonanza, o sensibilità differente, tuttavia, andrà messa nel conto: l’incognita è esattamente questa. Dipende dai rapporti di forza interni alla coalizione tedesca che uscirà vincente, in particolare per quel che riguarda i liberali e l’ala destra dei democristiani, i più severi nelle politiche fiscali. Qualche fantasma euroscettico ancora si muove nel cuore dell’opinione pubblica in Germania, in base al quale «i contribuenti tedeschi non possono pagare per gli scialacquatori del Sud».

A Berlino la questione dell’austerità resta aperta, per ora soltanto parcheggiata. La prospettiva, che coinvolge da vicino l’Italia, riguarda il Patto di stabilità, la cui sospensione scade nel 2022. Quindi: la spesa pubblica sovvenzionata dalla Ue va resa permanente o bisogna tornare alla situazione pre Covid, il Patto va riformato per attenuarne gli aspetti più dogmatici? Già gli 8 Stati «frugali» del Nord, proprio recentemente, hanno bocciato in chiave rigorista ogni ipotesi di modifica, mentre fin qui l’Italia ha ricevuto uno sguardo tedesco più favorevole rispetto al recente passato e nel mentre il governo Draghi può contare sull’alleato Macron lungo il percorso che conduce al rinnovo del Recovery Fund. Sapendo però che tutte le strade portano a Berlino.

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