La giustizia dei numeri che calpesta il diritto

GIUSTIZIA. Come ai tempi drammatici del Covid, quando i medici erano chiamati a scegliere chi far sopravvivere e chi lasciar morire. Mancavano posti letto, mancava ossigeno, mancavano apparecchiature.

Pur facendo le debite proporzioni, anche la giustizia bergamasca (e italiana) è ridotta in questo stato, una sorta di emergenza estesa e continua. Non ci sono risorse né personale per farla funzionare dignitosamente e allora ai magistrati è richiesto di agire come quei medici: decidere, seguendo non il proprio arbitrio ma le direttive distrettuali, quali fascicoli portare avanti e quali abbandonare all’asfissia della prescrizione. Lo ha raccontato con qualche imbarazzo ma efficacemente il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota ieri all’incontro tra i magistrati bergamaschi e una delegazione del Csm, per far intendere a che punto ci si è ridotti. Non siamo alle Parche in toga che recidono volontariamente il filo del destino. La pratica assomiglia piuttosto a un’eutanasia giudiziaria. Il problema è che con i singoli procedimenti muore pure il principio del diritto e della giustizia.

È stato lodevole lo sforzo della delegazione del Csm, capace di calarsi nella realtà di tutti i giorni ascoltando chi vive in prima linea i mali che affliggono il sistema giudiziario italiano. E confortante l’atmosfera elettrica durante il confronto, il prendere atto che, pur costretti a lavorare tra mille difficoltà, i magistrati bergamaschi sono tutt’altro che intenzionati a rassegnarsi. Però, è stato un pugno nello stomaco sentire nei vari discorsi termini come «smaltimento dell’arretrato», quasi quei fascicoli fossero pratiche catastali o merce andata a male in un magazzino e non contenessero invece storie di umanità, pezzi di vita, rivendicazioni di diritti, dolori, umiliazioni, sofferenze, speranze.

Viene avanti una giustizia numerica che riduce a cifre e trasforma in massa informe, cancellando volti e persone, un po’ come fa certa politica con i migranti che sbarcano sulle nostre coste: basta non guardarli negli occhi, basta non sapere le loro storie, basta ridurli a fastidioso mucchio ed è più facile «smaltirli», e cioè non soccorrerli e respingerli.

A questo si sta riducendo il sistema giudiziario italiano, obbligato a fare calcoli sulla prescrizione e ora, con la riforma Cartabia, anche pronostici sugli esiti processuali pur di alleggerire la mole di procedimenti che il sacrosanto principio dell’obbligatorietà dell’azione penale crea e che la carenza di organici e di fondi alimenta.

«Più risorse che riforme», è il grido che s’è levato ieri dalle toghe bergamasche. Uno slogan perfetto per far capire quanto la teoria normativa sia lontana dalla «quotidianità», come la chiama il procuratore Chiappani, ridotto da questa «quotidianità» a non sapere neppure quale Iban indicare a chi vuole pagare il corrispettivo di un decreto penale. Si tenta di raddrizzare le storture a suon di codici, facendo finta che una buona legge o una direttiva sia la bacchetta magica sufficiente a risolvere la situazione. Ma sarebbe come pretendere di costruire un palazzo solo con ingegneri e geometri. «Manca la manovalanza» del personale amministrativo, lamentano infatti in Procura. Dove, come ha rivelato l’aggiunto Rota, per arginare il blob dell’arretrato si tende ad «archiviare il più possibile» e ad «applicare decreti penali a prezzi da sconti di fine stagione», sperando forse nell’arrivo del Settimo cavalleggeri della depenalizzazione.

In fondo, ha ragione il consigliere del Csm Fontana: «Finché in Italia il rapporto magistrati/abitanti sarà inferiore alla metà della media dei Paesi europei, saremo in affanno». Ma aumentare gli organici costa più di una riforma. E allora avanti a suon di nobilissime norme. Che, senza adeguata «manovalanza», costringono però ai mezzucci o al mercato dei saldi giudiziari, ossia alla sconfitta del Diritto.

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