La montagna e il turismo, compromessi da scegliere

L’ANALISI. Quando si parla di turismo come carburante per la crescita economica ci sono obiezioni davanti alle quali è difficile replicare. Il turismo è un settore «fragile» per sua natura, e l’abbiamo visto negli anni recenti.

Si è fermato - o ha fortemente frenato - per le guerre. Si è azzerato per la pandemia. E chi aveva investito si è ritrovato seduto sull’uscio delle proprie attività, paralizzate. Si è ritrovato i costi quasi intatti e i ricavi svaniti nel nulla, con l’impossibilità di programmare. Ed è così che tante attività sono saltate in aria. Un’altra obiezione riguarda la produttività del settore, che genera sì occupazione, ma non altamente qualificata - tranne poche eccezioni - e caratterizzata da retribuzioni generalmente medio-basse. Anche qui, ovviamente, tranne i ruoli apicali. Perché un hotel avrà sì la parte manageriale con retribuzioni alte, ma sono pochi ruoli a fronte di tutto il resto dei lavoratori, ovviamente con livelli retributivi più contenuti. Poi la stagionalità, propria del turismo, che non garantisce un flusso economico costante. E infine pesa la scarsa sostenibilità ambientale di alcune infrastrutture al servizio dell’impresa turistica.

Tutto questo è vero. Ma ci sono realtà in cui il turismo è rimasto l’ultima spiaggia, o quasi. I dati che abbiamo riportato sul giornale di ieri dicono che quando c’è un’idea imprenditoriale vincente, allora il turismo può anche battere coi fatti alcune delle obiezioni tipiche sulla sua reale ricaduta economica. Le valli bergamasche hanno quest’arma, per provare a resistere, e quest’arma devono adoperare. Gli esempi di Monte Pora e Colere sono in cima alla lista. E dicono come la montagna può essere vissuta - e dunque generare crescita economica e lavoro, due argini fondamentali contro lo spopolamento delle valli - anche a prescindere dalla stagionalità. Il Pora ne è un esempio lampante: al Pora si va d’inverno per sciare e d’estate per respirare un po’ di «fresco», certo, ma non solo. Ci si va perché lì c’è un’idea, un modo di stare in montagna, di condividerla. C’è un’idea di benessere.

Non appena chiuderà la stagione sciistica, spinta anche dalle abbondanti nevicate delle scorse settimane, a Colere apriranno altri cantieri: quelli per il rifacimento dei rifugi che sono disseminati lungo le piste. Anche qui l’idea: quei rifugi non possono essere un’impresa che va in letargo quando la neve si scioglie. Quando gli sci tornano nei box, occorre richiamare i turisti con altre proposte, con altri modi di stare nel contesto meraviglioso della Presolana. E che l’idea funzioni lo dice l’esperienza di questi primi mesi: Colere era la «maglia nera» degli impianti, ora ha un’immagine, agli occhi degli sciatori (anche non bergamaschi), di modernità ed efficienza. E chi ha case da affittare si è già visto arrivare richieste per il 2025. Perché quando c’è un impianto di innevamento artificiale si cancella la «variabile» più pesante per chi investe: quella della neve naturale, che può scendere a metri oppure non farsi vedere proprio, o quasi. Sono impianti invasivi ed energivori? Sì. Ma sono compromessi da accettare se si vuol frenare l’abbandono dei nostri paesi.

E che un’idea vincente sia la base per attirare turismo lo dimostra anche San Simone, che non ha impianti e proprio su questo ha fatto boom: è la montagna di chi non vuol sciare. Le prossime vacanze pasquali vedranno il pienone, ovunque o quasi. Si tratta, ora e sempre di più, di spingere sulla qualità del turismo e della proposta. Perché è la qualità che accresce la professionalità di chi lavora nel turismo, e la professionalità porta retribuzioni in regola e più elevate. Porta famiglie che, se «ce la fanno», si stabiliscono o mettono via l’idea di abbandonare il paesello. Aziona circoli virtuosi che frenano la chiusura delle scuole, la desertificazione dei servizi. Bisogna crederci, bisogna investire, bisogna coltivare idee al passo coi tempi. Perché tutti vorrebbero i turisti, ma pochi riescono a portarseli a casa. La differenza è cruciale.

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