La pochette di Conte diventa una felpa

Primum vivere, deinde philosophari. Dovrebbe essere questa la massima ispiratrice della strategia del M5S in questa fase della sua travagliata vita. Prima cercare di sopravvivere, solo dopo ingaggiare battaglie ideologiche. Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Quando un partito si trova nella drammatica condizione di rischiare l’estinzione ha sempre una prova durissima da superare. Deve recuperare una missione in modo da rimotivare il suo popolo evidentemente perplesso o addirittura sconcertato dalle recenti sue evoluzioni.

Nel caso del M5S l’operazione si presenta in assoluto la più ardua. In questi quattro anni di legislatura non ha semplicemente sbandato. Ha cambiato addirittura direzione di marcia e il Movimento, in parte s’è perso per strada, in parte si è completamente disorientato. Era un partito orgogliosamente antisistema e ha deciso di entrare nel sistema. Doveva dare per scontato che operando letteralmente un’inversione di marcia avrebbe perso gran parte del suo popolo: quella parte che si era mobilitata in nome delle parole d’ordine delle origini. Invece ha cercato di conciliare l’inconciliabile, la fedeltà alle sue idee avverse al sistema con comportamenti la cui logica era una definitiva normalizzazione nella - prima odiata - democrazia dei partiti. Nel linguaggio continuava ad agitare le invettive contro casta e poteri forti e in pratica ne adottava il costume, fino all’estremo di questi giorni in cui abbiamo visto ministri grillini negare la fiducia al governo di cui imperterriti continuavano a far parte.

Giunto quasi a fine legislatura, più che abbandonato (stando ai sondaggi e al recente voto amministrativo) da una parte cospicua del suo elettorato, nella vana speranza di recuperarlo nei pochi mesi che lo separano dalla fine legislatura, ha compiuto un’inversione a U. L’idea che per sopravvivere doveva tornare a usare le parole forti dei primi tempi rappresentava ormai l’ultima chance per non sprofondare. Avrebbe dovuto essere consapevole, però, che un ritorno alle origini, dopo averle tradite, esige un lavoro di lunga lena. Comporta l’attraversamento, necessariamente solitario, del deserto dell’opposizione sotto una guida capace e soprattutto coerente con un indirizzo di rottura. Viceversa, cosa hanno fatto i Cinquestelle? Hanno adottato un leader come Conte, solo perché gode ancora della popolarità acquisita facendo il premier. Allora si era distinto per una gestione moderata, compassata, svicolante dalle decisioni suscitatrici di contrasti, tanto da aver evocato lo stile di governo della Democrazia Cristiana: lenire, sopire, rinviare. Esattamente il contrario dell’aizzatore della lotta dura e pura che è chiamato a impersonare ora. Forse Conte fa affidamento al metodo che gli ha assicurato una permanenza a Palazzo Chigi con due maggioranze opposte: la «quasità», una forma di equilibrismo tra gli opposti: stare quasi di qua e quasi di là, quasi in maggioranza e quasi all’opposizione, quasi con Letta - il più convinto sostenitore di Draghi - e quasi con Di Battista - il più determinato suo oppositore -, quasi filo-atlantico e quasi anti-americano, quasi descamisato e quasi in doppio petto. Insomma, il M5S pensa di aver trovato la mossa vincente per affrontare il prossimo voto: presentarsi agli elettori con un leader che indossa insieme alla sua pochette d’ordinanza una felpa fresca fresca di confezione.

Non c’è chi non veda la dissociazione irrisolta del leader grillino e, per traslato, della svolta operata dal suo partito. Un Conte quasi Di Maio e quasi Di Battista, senza essere nessuno dei due. Un M5S quasi di lotta e quasi di governo senza essere nessuno dei due. Auguri.

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