La politica debole
e le esigenze di governo

Di tecnici chiamati a rivestire la carica di premier ne abbiamo visti tanti: Lamberto Dini, Azeglio Ciampi, Carlo Cottarelli, Mario Monti, da ultimo Mario Draghi. Di tecnici candidati in contemporanea, come l’ex presidente della Bce, insieme alla suprema carica dello Stato e alla presidenza del Consiglio, non c’è invece traccia negli annali della nostra Repubblica e, per quel che ne sappiamo, in nessun altra democrazia. Non sì è mai visto nemmeno che i partiti all’unisono (opposizione compresa) concordino sul nome del futuro presidente della Repubblica per dividersi solo su quale delle due più alte cariche affidare allo stesso tecnico. Il tutto mentre l’interessato non si candida a nessuna delle due.

L’aspetto non meno curioso, ma anche assai illuminante, della faccenda è che le ragioni per cui Draghi è invocato dalle opposte sponde, ora a restare a Palazzo Chigi, ora a salire al Colle, ora a rinviare a fine legislatura ogni decisione, sono le più varie. Qualcuno vuole che resti premier perché non vede chi altri potrebbe assicurare un buon governo dei miliardi in arrivo da Bruxelles. C’è chi teme che, diversamente, si aprirebbe una crisi di governo difficile da superare. C’è infine chi desidera che resti al suo posto per non fargli interrompere l’opera meritoria che sta svolgendo, candidandolo presidente della Repubblica solo dopo il 2023. Al contrario, sono in molti a proporre di spostarlo subito al Quirinale perché pensano che questo sia un utile escamotage per indire nuove elezioni.

Esattamene il contrario di quanti pensano che in questo modo si scongiurerebbe il voto anticipato. Da ultimo, è stata avanzata la proposta dirompente di mandare Draghi sul Colle senza togliergli, almeno informalmente, la guida del governo. Equivarrebbe a introdurre nel nostro sistema istituzionale un «semipresidenzialismo de facto», come riconosce lo stesso proponente, il leghista Giancarlo Giorgetti. Non s’era mai visto nemmeno questo, ossia che il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo avvenisse a insaputa – forse anche contro la volontà – di chi il presidente dovrebbe poi fare. In Francia è stato lo stesso generale De Gaulle a volersi sbarazzare del parlamentarismo giudicato inconcludente della Quarta Repubblica per varare la Quinta e insediarsi poi da presidente.

Apriti cielo! Si è gridato alla Costituzione violata. In effetti, la proposta-auspicio di Giorgetti collide con la norma della Carta che assegna al capo dello Stato la funzione di rappresentare la nazione, e non di assumere funzioni di governo. Appurato, però, che la soluzione indicata dal vice di Salvini, Costituzione alla mano, non è praticabile, il problema pur sempre resta. Se da quasi un trentennio i partiti sono ricorsi a un tecnico ogniqualvolta non sono stati capaci di trovare una soluzione di governo, dovrebbero pur chiedersi la ragione di questa loro impotenza. La risposta si sono incaricati i fatti di fornirla. È da quasi mezzo secolo che s’insediano commissioni incaricate di approntare una riforma del nostro sistema istituzionale senza concludere alcunché.

La verità è che la politica si aggrappa a un tecnico semplicemente perché senza di lui ci sarebbe il vuoto. Draghi è forte perché la politica è debole. Le coalizioni scricchiolano già ora che non sono chiamate ad assumere la responsabilità di governo. I partiti alla sola idea di farsi promotori di un’alternativa a Draghi si dividono. Ci sono tutte le premesse perché l’elezione del successore di Mattarella sia una corsa sull’ottovolante.

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