La politica francese messa in crisi dagli estremi

MONDO. Nominato la sera di domenica 5 ottobre e dimessosi la mattina del giorno successivo, appena quattordici ore più tardi, quello di Sébastien Lecornu è il più breve governo della storia di Francia, battendo persino quello di Frédéric François-Marsal nel 1924 (durato due giorni).

È una delle stravaganze di questa democrazia dove tutto è possibile: che un ex presidente della Repubblica finisca in carcere per corruzione (Nicolas Sarkozy) mentre quello attuale rimanga all’Eliseo con un consenso risicatissimo e si gridino a gran voce le sue dimissioni, che le piazze si riempiano di folle arrabbiate al grido di «blocchiamo tutto» (slogan copiato dalla nostra Cgil, cui evidentemente è piaciuto), che il debito pubblico tutt’a un tratto esploda sorpassando quello italiano, che al Welfare più all’avanguardia del mondo si chiedano tagli più draconiani della Grecia, che il Parlamento si divida in tre blocchi a tenuta stagna, incapaci di creare una maggioranza.

La «monarchia repubblicana»

La situazione attuale è il risultato di un concatenarsi di squilibri istituzionali. Sul banco degli imputati, a torto o a ragione, c’è infatti il regime semipresidenziale della Quinta Repubblica, con l’ossessione dei politici per l’elezione presidenziale, diventata il vero baricentro del potere. In Francia il Capo dello Stato – a differenza di quello italiano – ha prerogative enormi, dalla scelta del primo ministro allo scioglimento dell’Assemblea nazionale. Questo «monarca repubblicano», come è stato definito, decide la politica estera e di difesa, presiede il Consiglio dei ministri, è eletto a suffragio universale direttamente dal popolo, ratifica i trattati, accredita gli ambasciatori, può addirittura assumere i pieni poteri in caso di crisi nazionali sospendendo temporaneamente la separazione dei poteri, come i dittatori dell’antica Roma.

Le elezioni del presidente della Repubblica

Per questo nella Quinta Repubblica le consultazioni per la scelta del presidente della Repubblica sono sempre state considerate l’elezione «regina». Le legislative, quelle che nominano i deputati dell’Assemblea nazionale, di solito confermano l’assetto politico. Di solito, ma non sempre. Nel 1981 i deputati sostenitori di François Mitterrand ottennero la maggioranza assoluta; lo stesso accadde per Emmanuel Macron nel 2017. Ma questa logica si è inceppata dopo le rielezioni: sia nel 1988 con Mitterrand, sia nel 2022 con Macron. E ancor più dopo lo scioglimento dell’Assemblea nel 2024. Macron, con una mossa a sorpresa, attendeva una «chiarificazione», ma ne è derivata solo maggiore confusione.

Il problema è che la fine della storica bipolarizzazione tra centrodestra e centrosinistra ha ridisegnato un panorama politico frammentato, con due nuovi attori in ascesa che mettono in difficoltà i moderati: l’estrema sinistra e l’estrema destra, entrambi a lungo penalizzati dal sistema maggioritario delle legislative. Anche un semplice «patto di non sfiducia» è stato rifiutato dal Partito socialista, stretto tra la pressione elettorale e quella ideologica di La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Idem con la destra di Marine Le Pen, che attende solo il suo turno.

L’attenzione rivolta alle elezioni del 2027

La verità è che in Francia nessuno pensa più al presente: tutti guardano al 2027, alle prossime presidenziali. Fino ad allora, il Paese resterà sospeso, come in apnea. Macron, nella sua passeggiata solitaria lungo la Senna ieri pomeriggio, deve averlo intuito: il sistema è costruito su un solo uomo, ma l’uomo non c’è più. E finché la cultura del compromesso — quella che in Italia e in Germania consente alle coalizioni di sopravvivere — non attecchirà anche all’Assemblea nazionale, la Francia resterà prigioniera della sua stessa idea di potenza: un Paese in cerca di un nuovo «monarca repubblicano» nel mezzo del caos. Ma manca ancora un anno. Che accadrà nel frattempo?

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