La politica invocata e ora Draghi fa scuola

Mai elezione pare più scontata. Il centrodestra è dato per vincente. Non si esclude addirittura un suo en plein: ossia la conquista di oltre i due terzi degli eletti; il che lo metterebbe nelle condizioni di poter non solo imporre Meloni premier, ma anche di poter cambiare a suo piacimento la Costituzione.

In un sol colpo incasserebbe due vittorie sino all’altro ieri impensabili: l’insediamento a Palazzo Chigi della prima figura (al femminile) con un passato nel Msi, il partito della fiamma; la possibilità di dare un’impronta presidenzialista alla Repubblica nata rigorosamente parlamentare. Questo, almeno ci pare oggi, lo scenario più probabile con cui si aprirà la prossima legislatura. Ma, siamo sicuri che questo sarà il verdetto delle urne?

Le variabili che possono infrangere le previsioni di uno scontato successo pieno del centrodestra sono molteplici. La forte mobilità del comportamento elettorale. L’ampio margine di incerti. La differenza che può fare una campagna elettorale azzeccata o meno. Il cambiamento intervenuto nel mood (stato d’animo) del Paese. Resta, infatti, la preoccupazione per il futuro, sull’onda delle drammatiche emergenze intervenute (pandemia, guerra nel cuore dell’Europa, inflazione, crisi energetica), ma è mutata la disposizione dei cittadini verso la politica. Prima era sotto accusa, oggi è invocata. Prima si applaudiva la politica gridata, oggi si apprezza la politica operosa. Prima trionfava il Vaffa, oggi è un osanna per Draghi. Il paradosso è che quegli stessi partiti che l’hanno dimissionato sollecitano da lui un intervento straordinario sui conti pubblici (uno sforamento di bilancio, difficile da attuare per un governo in carica per gli affari correnti) Un bel modo per smentirsi da soli.

Insomma, la figura dell’ex presidente della Bce si conferma la variabile più importante di questa tornata elettorale. È lui il convitato di pietra del confronto tra i partiti. Assente ma presente. Per tutti. Per i sostenitori e, non meno, per i detrattori. Qualcuno (Calenda e Renzi) lo giudica insostituibile, qualcun altro (Conte) «un’insidia per la democrazia». Si è discusso a lungo sul suo profilo specificatamente di tecnico, una qualifica che avrebbe dovuto renderlo politicamente neutro e la sua permanenza alla guida del governo temporanea. Si è rivelato invece l’uomo giusto al posto giusto, nel momento giusto. Figura rispettata all’estero in tempi procellosi per la finanza pubblica che richiedono all’Italia, più di prima, il sostegno dell’Europa e dei mercati (questi hanno la memoria lunga, non si dimenticano che siamo il Paese con uno dei più alti debiti del mondo). Un esempio, all’interno, di politico autorevole e operativo come mai, in un’Italia resa famosa per le sue lungaggini e per sue promesse mancate.

Ben presente nella campagna elettorale, è facile che l’ombra di Draghi incomba anche sulla prossima legislatura. Anche nel caso di una più che probabile vittoria elettorale del centrodestra, non è detto che questa si tramuti automaticamente in una vittoria politica. A parte le divergenze programmatiche presenti al suo interno, a parte le rivalità serpeggianti sulla leadership, a parte il carico di emergenze che gravano sul futuro governo, c’è da chiedersi se siano questi i tempi, nei quali una parte politica abbia la forza, gli uomini, le risorse, una credibilità all’interno tra le forze produttive e una rispettabilità internazionale tra i partner europei per reggere una prova tanto ardua come quella che attende l’Italia.

Draghi è stato fatto uscire dalla porta. Non è detto che non sia chiamato a rientrare dalla finestra. Non è un caso che Meloni, leader dell’unica forza di opposizione al governo Draghi, si prodighi per rassicurare Europa e mercati che le sue sono le stesse preoccupazioni di Draghi.

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