La riforma presidenziale segua la via maestra

POLITICA. La «grande riforma» ritorna nello scenario politico con l’annuncio della premier Meloni di voler mettere mano a una modifica della forma di governo in senso presidenziale. Non esistono, al momento, proposte specifiche che permettano valutazioni di merito.

Aleggia soltanto un’idea di fondo: occorre dare maggior forza al potere esecutivo. In questa nebbia sottile si scorgono alcuni elementi di natura squisitamente politica. È palpabile l’ansia dell’attuale governo di sbandierare il vessillo del «presidenzialismo» come panacea contro i mali e le incertezze che deriverebbero dall’attuale meccanismo istituzionale dei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo. Non è chi non veda in tale ipotesi la vocazione a prediligere «l’uomo (o la donna) solo al comando». In merito occorre ricordare che la Costituzione delinea la figura del Presidente del Consiglio come un primus inter pares in seno al Consiglio dei ministri che guida e coordina l’azione dell’esecutivo. Si osserva – non da oggi - da parte dei partiti di centro destra che la lentezza dei processi decisionali è favorita dal bicameralismo perfetto, che impone approvazioni letteralmente uguali al Senato e alla Camera per divenire leggi. Argomento non privo di ragioni, ma al quale è necessario aggiungere un corollario. I governi – da almeno tre decenni a questa parte – hanno supplito con scelte che hanno aggravato, anziché risolverlo, il problema. L’uso dei decreti-legge ha gravemente inciso sul ruolo delle Camere, costretti a marce forzate per approvare entro sessanta giorni le decisioni dell’esecutivo. A ciò si deve aggiungere l’abuso del voto di fiducia che strangola il dibattito e compatta la maggioranza del momento ad approvare comunque il decreto in discussione.

Le Costituzioni possono (e debbono, se serve) essere modificate. Non a caso la Carta costituzionale italiana prevede con puntigliosa precisione le modalità di esercizio di tale prerogativa del Parlamento. Impone, come è noto, un processo rafforzato che prevede la maggioranza dei due terzi dei componenti delle singole Camere nell’approvazione della proposta, nonché una «doppia lettura» di essa nell’arco di tre mesi. Il progetto può essere approvato anche dalla maggioranza semplice degli aventi diritto, ma – in tal caso – la riforma della Costituzione deve essere sottoposta all’approvazione dei cittadini mediante referendum. Nell’ambito di tale percorso procedurale si possono imboccare sia la prima, sia la seconda ipotesi. Dalla premier sono arrivati due messaggi contrastanti: da un lato Meloni ha dichiarato che intende convocare i vertici dei partiti di opposizione per discutere del problema; dall’altro ha precisato che non esiterà a procedere con i voti della sola maggioranza, se non si dovesse trovare un accordo sulle proposte del governo. Questa seconda ipotesi non è auspicabile. L’attuale governo potrebbe richiamarsi alla sciagurata legge costituzionale n. 3 del 2001, fortemente voluta dall’allora ministro Bassanini e approvata al Senato con quattro voti di maggioranza. Una scelta infelice che andrebbe rimossa e mai auspicata.

Sul tema occorre partire da un considerazione preliminare: qualunque progetto di riforma della Costituzione riguardante la forma di governo dovrebbe prendere le mosse dall’approvazione di una legge elettorale coerente con la nuova dislocazione dei poteri (legislativo ed esecutivo). È singolare il fatto che il sistema elettorale sia affidato a una legge ordinaria. Meccanismo che ha favorito il balletto di modifiche affidate alle alterne maggioranze di governo. Risultato: un coacervo di norme stiracchiate e poco rispondenti all’oggettività del voto espresso, di volta in volta, dall’elettorato. I nostri Padri costituenti scelsero di non fissare nei precetti della Carta costituzionale le modalità di esercizio del diritto di voto. Si trattò di un comportamento prudente nel contesto politico del tempo. Gli articoli dedicati al sistema elettorale nella Costituzione si limitano a indicare i diritti dei cittadini, evitando persino di sanzionare coloro che, per scelta, disertano le urne.

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