La Russia ingabbiata nei dogmi del passato

IL COMMENTO. I russi accusano i governanti ucraini di essere dei «nazisti»; Kiev risponde etichettando il potere del vicino come «fascista». In questi giorni Vladimir Putin ha collegato l’«Operazione militare speciale», lanciata il 24 febbraio 2022, all’ultimo grande conflitto planetario: il Cremlino - questa l’interpretazione data - starebbe scontrandosi ora contro «gli eredi» di Adolf Hitler.

Per decenni i Paesi ex sovietici hanno vissuto nel ricordo di quell’immane tragedia che è stata la Seconda guerra mondiale e hanno celebrato il 9 maggio la Vittoria, ottenuta immolando 28 milioni di persone. Logico, quindi, che Mosca utilizzi quel tipo di paragone per tenere unita la propria opinione pubblica su quanto sta avvenendo in Ucraina. Che poi questo tipo di narrativa non corrisponda a verità non è così importante per chi governa. Curioso è che, ai tempi di Stalin, gli invasori dell’Urss venissero chiamati dalla gente semplicemente «fascisti», che aveva l’intrinseco significato di massacratori di popoli, soprattutto per la pulizia etnica perpetuata. I comunisti sovietici temevano allora che qualcuno in patria potesse confondersi, poiché si lottava contro i nazional-socialisti tedeschi, ossia i «nazisti». Da qui la scelta di indicare i nemici come «fascisti». Una definizione invero quest’ultima, che ancora oggi genera confusione tra i dialoganti originari di Paesi diversi, quando - a queste latitudini - si parla di eventi storici.

Sorge, a questo punto, una domanda spontanea: ma come è possibile che nel XXI secolo, nell’epoca della globalizzazione, in Russia si sia fermata a questi punti? Forse, la risposta è da ricercarsi nella mancata libera analisi storica di un passato doloroso, studio impedito troppo a lungo dai dogmi imposti dalle ideologie, punto di riferimento dei poteri. Ricordarsi di questi aspetti, una volta che l’odierna tragedia finirà, sarà fondamentale per costruire in futuro una società più sana.

A parte le etichettature reciproche, la controffensiva ucraina tarda ad arrivare. Secondo nostre fonti a Kiev l’inizio della riconquista dei territori «occupati» sarebbe dovuta iniziare entro il 30 aprile, termine poi spostato al 6 maggio. Evidentemente quest’ultima data è stata ulteriormente procrastinata. Le ragioni sono diverse: principalmente tattiche, ambientali e logistiche. Primo, per 9 anni gli ucraini si sono difesi ed hanno imparato a farlo bene, ma adesso serve attaccare. La differenza non è affatto banale. Secondo, le campagne sono ancora fangose: i pesanti carri armati possono impantanarsi. Nel febbraio 2022 i russi utilizzarono le strade per i loro tank e sappiamo come andò a finire. Terzo, c’è il problema del controllo del cielo.

L’operazione di preparazione della controffensiva da parte di Kiev è andata avanti per settimane e si è probabilmente conclusa: sono stati infatti eliminati depositi di munizione e di carburante, sono state colpite le infrastrutture. Quindi, come spiegano gli specialisti, entro tre settimane Kiev dovrà attaccare, altrimenti i russi ricomporranno le loro scorte.

Ma verso quale direttrice Zelensky farà avanzare i suoi? Numerose sono le possibilità. A giudicare dalla pesantezza delle minacce dei russi, si comprende che Mosca si rende conto del pericolo, evidenziato anche dai dissidi tra i propri militari e i capi delle compagnie private.

Noi non escluderemo affatto che Kiev possa tentare di puntare al bersaglio grosso, ossia alla Crimea, che è la vera ragione della presente tragedia. Come dimostra la battaglia di Bakhmut, occupare un centro abitato è difficile. E il Donbass è pieno di cittadine.

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