La settimana corta e il nodo produttività

LAVORO. Lavorare meno e guadagnare come prima, se non addirittura più di prima, sembrerebbe ormai possibile. Posta in tal modo la questione, non poteva che destare notevole interesse l’introduzione della «settimana corta» in importanti realtà produttive italiane: dopo la sperimentazione avviata tra alcuni dipendenti di Intesa Sanpaolo, nei giorni scorsi ci sono stati gli annunci da parte di Luxottica e a seguire di Lamborghini.

Tuttavia, mentre si affievolisce il legittimo clamore mediatico, sarebbe saggio chiedersi: a quali condizioni possono diventare davvero generalizzate decisioni simili? Per rispondere, sarà bene cominciare osservando che quelle citate sono aziende più innovative, internazionalizzate e competitive della media nazionale.

I 2.100 lavoratori di Lamborghini – con sede nel Bolognese e di proprietà del gruppo tedesco Volkswagen – costruiscono vetture supersportive richieste in tutto il pianeta. Luxottica, con quasi 20.000 dipendenti negli stabilimenti italiani, è il più grande gruppo mondiale dell’occhialeria. Non è casuale che proprio in queste realtà, attraverso la contrattazione integrativa con i sindacati, si sia scelto di accorciare la settimana lavorativa a quattro giorni per molte settimane all’anno, investendo allo stesso tempo su formazione, welfare, assunzioni e allo stesso tempo si siano riorganizzati lavoro e flussi produttivi. Nel caso di Luxottica, per esempio, ciò è stato fatto anche per adeguare la produzione a «picchi» positivi e negativi in relazione alla stagionalità di una vastissima gamma di prodotti, come ha osservato l’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: «Ne conseguirà il superamento degli straordinari prefestivi e la cancellazione del venerdì per venti settimane. Sarà però possibile pianificare, anche rapidamente in relazione agli andamenti di mercato, l’incremento del tempo di produzione». In definitiva, è grazie alle accresciute produttività ed efficienza organizzativa che un’azienda e i suoi dipendenti si possono permettere di rinegoziare in modo vantaggioso orari e altre condizioni: l’impresa così potrà diventare ancora più competitiva nei mercati internazionali e «fidelizzare» tra l’altro lavoratori sempre più preziosi, sia perché già formati sia perché più difficili da reperire sul mercato (il declino demografico è implacabile).

Condizioni di questo genere, però, non ci sono ovunque. Al di là di alcuni «campioni», la produttività media nel nostro Paese ha infatti un andamento asfittico ormai da molti anni. Cos’è la produttività? È la quantità di beni e servizi che sono prodotti in una determinata unità di tempo. La produttività può essere calcolata rispetto a singoli fattori utilizzati nel processo produttivo (lavoro o capitale per esempio), oppure rispetto a tutti i fattori utilizzati, a loro combinazioni o legami. Quest’ultima è quella che si chiama «produttività totale dei fattori». La produttività, insomma, può misurare la capacità produttiva di una singola azienda ma anche di un Paese intero. Non a caso, pochi giorni fa, il neogovernatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha identificato proprio questo fattore come il «dato fondamentale» per spiegare il «problema strutturale di crescita» dell’Italia: «La nostra economia soffre da oltre due decenni della stagnazione della produttività del lavoro, a fronte di un aumento annuo dell’1 per cento nel resto dell’Eurozona». Secondo l’Istat, dal 1995 al 2022 la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia si è attestata al +0,4%, decisamente inferiore alla media dell’Ue (+1,6%), della Francia (+1%) o della Germania (+1,3%). Colpa di lavoratori «pigri» o «inefficienti»? Nient’affatto. Lo stesso Panetta ha spiegato che un tale andamento della produttività del lavoro «è spiegato principalmente dalla deludente dinamica della produttività totale dei fattori – ossia i guadagni di efficienza derivanti dalle nuove tecnologie, dai miglioramenti organizzativi, dall’innovazione di prodotto e dall’espansione delle imprese più efficienti». Soltanto un laborioso ma progressivo recupero di questi ritardi consentirà a un numero crescente di aziende di percorrere la strada della settimana corta. Senza inutili diktat legislativi, ma incentivando una contrattazione con i lavoratori che possa facilitare adeguamenti realistici e virtuosi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA