La sinistra fa fatica ad ascoltare il Nord

Il commento. Hanno votato 4 elettori su 10. Calcolando che i governatori Fontana e Rocca hanno raccolto la metà dei suffragi, se ne deduce che sono espressione di solo il 20% dei loro concittadini. Troppo poco! Sarebbe quindi inficiata la rappresentatività – persino la legittimità - della loro elezione. Se, come cantava Giorgio Gaber, «la democrazia è partecipazione», saremmo in piena crisi democratica.

Solo che la democrazia è anche un sistema per scegliere i propri governanti e se le regole sono rispettate, l’elezione è legittima. Resta il problema della rappresentatività, che sarebbe sminuita nel caso in cui l’astensione avesse danneggiato segnatamente l’opposizione. Ma così non sembra sia stato. In Lombardia, l’astensionismo ha colpito entrambi i contendenti. A Fontana è mancato un milione di voti rispetto al 2018, a Majorino mezzo milione. L’ampliamento dell’astensione costituisce certo una grave minaccia alla qualità della democrazia. Non può costituire, però, un alibi per non riconoscere un dato incontrovertibile della presente geografia elettorale lombarda, e cioè la confermata minorità politica della sinistra. Non regge l’argomento che è risultata perdente perché è mancato l’accordo su un candidato comune delle opposizioni. A parte la persistente incompatibilità di Terzo polo e M5S, non è detto poi che una coalizione di tutte le forze contrarie alla destra avrebbe arricchito il bottino di voti. In politica è facile che uno più uno faccia solo uno e mezzo. Del resto, la prevalenza della destra in Lombardia non è accidentale.

Esiste da lungo tempo. Sono cambiati i candidati, si sono alternate le politiche, ma lo scarto tra destra e sinistra, invece di ridursi, si è allargato. Il dato è tanto più saliente se si considera che la nostra non è una regione qualsiasi. È la più popolosa, ma soprattutto la più vitale del Paese. Se la sinistra non riesce a prendere la guida della locomotiva economica dell’Italia, come può aspirare a prenderne il comando? A ben guardare, si vede che dietro il problema della Lombardia se ne staglia uno ben più grande. Si chiama: «Questione settentrionale». Il Nord da sempre nutre un pregiudizio sfavorevole nei confronti della politica. Ne teme l’invadenza che la ostacoli o addirittura che ne soffochi la vitalità. Diffida perciò grandemente delle forze politiche che fanno dell’interventismo pubblico la loro bandiera, interventismo che temono trascenda in mero assistenzialismo. Non vuole sentir parlare di «politica ortopedica», di una politica cioè che si proponga di raddrizzare schiena e postura della borghesia produttiva per indirizzarla al bene comune e non più alla ricerca del profitto. Non si spiega altrimenti la sordità della provincia lombarda al verbo progressista. La cifra distintiva delle nostre valli, colline e pianura è la laboriosità sposata all’intraprendenza, allergica per principio all’intrusione di altri poteri, siano burocratici, amministrativi o statali.

È di questa difficoltà di ascolto del ceto produttivo che la sinistra deve prendere coscienza, invece di perdersi nelle fumisterie su primarie, campi larghi, alleanze progressiste. Dopo aver perso il proletariato operaio, non può illudersi di poter recuperare competitività col sottoproletariato (gli emarginati, i senza lavoro, gli immigrati) o arroccandosi nei centri città, nella zona Ztl come s’usa dire, tutt’al più col supporto del cosiddetto «ceto medio riflessivo», il mondo dell’impiego pubblico e di tutto quel circuito di lavoratori che fanno conto sulle loro sole forze per procurarsi un reddito. Né può accontentarsi di sostituire nella sua agenda politica i diritti sociali con i diritti civili. Non è un caso che la sinistra risulti altamente competitiva nei capoluoghi (Milano, Brescia, Bergamo, Cremona, Mantova e persino in alcune ex roccaforti leghiste come Como e Varese) e invece minoritaria là dove il popolo delle partite Iva, per eccellenza la parte più individualista della nostra società, è dominante.

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