La violenza di Israele e il silenzio del mondo

MONDO. «L’operazione Jenin è finita», ha annunciato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Poi ha aggiunto: «Non sarà l’ultima». La violenza chiama altra violenza nella spirale senza fine del conflitto israelo-palestinese, che si consuma ormai nel più totale silenzio della Comunità Internazionale. Nessuno condanna, nessuno si indigna. Parlano ormai solo le armi, anche se tutti sono d’accordo sul fatto che nessuna soluzione militare è possibile, mentre non si vede all’orizzonte alcuna soluzione politica. Israele così ha mano libera e la risposta è la rappresaglia. Entra nelle città palestinesi da mesi, cerca terroristi per arrestarli o meglio per ucciderli e insieme a loro cadono bambini, donne, anziani. L’anno scorso la conta dei morti si è fermata a 250. Quest’anno in soli sei mesi siamo già a 170.

Terrorista è chi lancia un sasso contro una camionetta, chi si difende dai manganelli israeliani, chi guarda dal tetto di una casa e viene scambiato per un cecchino. In nome della lotta al terrorismo in Medio Oriente altrove negli ultimi decenni si è mascherato ogni massacro. Ieri a Jenin si sono contati i morti, compresi bambini. Domani il calcolo ripartirà, perché la miscela è diventata ormai esplosiva e una violenza così non la si vedeva dai tempi della prima e seconda Intifada. La rabbia e l’esasperazione accumulata da una popolazione senza prospettive, senza libertà, senza diritti che quest’anno ricorda i 75 anni della Nakhba, la «catastrofe», cioè l’ esodo forzato della popolazione araba durante la guerra arabo-istraeliana del 1948 seguita alla fondazione dello Stato d’Israele, non trova alcuna risposta politica né da Israele, né dall’Autorità Palestinese. Il governo di Netanyahu è debole e prigioniero dei suprematisti ebrei, movimento dei coloni entrato in Parlamento.

Le offensive di questi mesi, l’ultima a Jenin, erano state tutte praticamente annunciate nel programma politico degli ultraortodossi, senza i quali il premier più longevo di Israele non sarebbe mai tornato al potere. La logica militare soddisfa il ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir, l’uomo che ha promesso «dure lezioni» ai palestinesi. L’Autorità Palestinese, guidata dal vecchio Abu Mazen, 87 anni, non controlla più nulla impegnata solo in una lunga disputa su chi prenderà il suo posto. Gli accordi del passato, da Camp David a Oslo a Madrid, sono morti e sepolti. C’è solo la retorica che arma i coloni israeliani e il governo che li sostiene e la radicalizzazione sempre più disperata della nuova generazione di giovani palestinesi, senza futuro. L’Operazione Jenin ha tuttavia passato ogni segno. Il Patriarca di Gerusalemme padre Pierbattista Pizzaballa l’ha definita «aggressione senza precedenti». Una violenza del genere non la si vedeva dal 2002, dall’assedio del campo profughi che fu definita «Muraglia di difesa», operazione di guerra massiccia che distrusse quasi la metà delle case precarie cresciute le une sulle altre, praticamente città, come tutti i campi profughi della Cisgiordania, dove la vita è grumo di sofferenza.

Ventun’anni dopo la tragedia si è di nuovo compiuta, con sparatorie, morti, ruspe blindate che hanno sventrato strade, la rete fognaria e idrica, schiacciato automobili, distrutto case. Danni ha riportato anche la chiesa della parrocchia latina, oltre alle moschee. E poi raid aerei, droni e carri armati. I profughi palestinesi sono diventati due volte profughi, doppiamente rifugiati, costretti in oltre 500 ad abbandonate di nuovo le case. Cosa può portare di buono tutto ciò? Nulla dal punto di vista militare e nulla da quello politico. Padre Pizzaballa invita a prevenire altri «futuri e ingiustificati attacchi alla popolazione». Perché di questo si è trattato. Il Patriarca di Gerusalemme è l’unico che parla con chiarezza e attribuisce il giusto nome ai fatti. La «catastrofe» di 75 anni, da cui tutto è partito e continua a macinare odio e annientare presente e futuro, non può essere dimenticata nel cambio dei nuovi equilibri geopolitici del Medio Oriente, che consentono a Netanyahu di sentirsi le mani libere e di tirare il grilletto quando e come gli pare. Né il passato di dolore di palestinesi e israeliani si può scrollar via con il rafforzamento reciproco di identità canaglia in nome della purificazione della propria coscienza.

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