Lavoratori più fragili
Un conto salato

La pandemia non è stata solo malattia, lockdown, carenza di abbracci, vite strappate ai propri affetti. La pandemia ci ha impoveriti. Com’era prevedibile, una delle sue conseguenze è stata quella di farci tornare indietro nel progresso e nello sviluppo sociale. Il consuntivo di un anno di Covid è tragico anche sotto questo punto di vista. Gli ultimi dati Istat registrano un milione di italiani in più in povertà assoluta (poco più di 1.700 euro al mese per una famiglia di quattro persone che vive in un’area metropolitana). Dopo anni in cui veniva arginata, l’indigenza torna a crescere, ad allargarsi come una macchia d’olio. Si azzerano così i miglioramenti registrati nel 2019, dopo quattro anni consecutivi di crescita del reddito pro-capite medio in tutto il Paese.

La provincia di Bergamo non fa eccezione. Quest’anno sarò peggio del 2020, ci informano i sindacati. Naturalmente questa non è una condizione che riguarda tutti i comparti. Le difficoltà dipendono dai settori in cui si è persa produttività e produzione o che si sono fermati. In alcuni casi infatti siamo andati a zero. Pensiamo al turismo, agli impianti sciistici che non solo non hanno aperto ma hanno dovuto affrontare spese cospicue di messa in sicurezza per poi non ripartire. Ci sono settori che hanno lavorato a singhiozzo, con limitazioni scoraggianti e complicate, come i gestori dei bar, alle prese con orari impossibili, gli albergatori e i ristoratori.

Altri sono fermi da mesi: le palestre, le piscine, le discipline atletiche dilettantistiche. Secondo le rappresentanze di categorie si tratta di almeno 20 mila lavoratori scivolati nella povertà. Ci sono «persone che potrebbero trovarsi disoccupate non appena il blocco dei licenziamenti sarà tolto». In Italia come nella nostra provincia la crisi sta colpendo i lavoratori che già alla prima ondata erano definiti fra i più fragili, con redditi generalmente più bassi rispetto ad altri settori e che necessitano di importanti misure di protezione sul piano contrattuale. Coloro che entrano nella ormai classica definizione di «working poor», le persone che pur lavorando rimangono poveri. Le prime vittime della crisi sono le donne, come abbiamo visto dai dati del dicembre scorso. Rispetto a novembre 2020, le lavoratrici sono diminuite di 100 mila unità a fronte dei «soli» 2 mila posti perduti dagli uomini (dati Istat). Il Covid non ha fatto altro che peggiorare una situazione già molto penalizzante per l’universo femminile: da anni siamo penultimi in Europa, con un tasso di occupazione in rosa che non arriva al 50% contro una media Ue del 63%. Tra le aree più penalizzate dal contagio ci sono quelle del teatro, dell’arte e dell’intrattenimento, compromesse dalle necessarie misure di distanziamento sociale, nei quali le donne sono percentualmente molto più presenti.

Naturalmente ci sono anche settori che sono riusciti a contenere gli effetti economici del Covid, come il pubblico impiego e certe grandi manifatture e comparti che hanno goduto di grandi ricavi come la logistica (pensiamo ad Amazon) o la grande distribuzione. Sta allo Stato riequilibrare queste enormi disfunzioni economiche che diventano sociali attraverso sussidi, benefit, ristori e imposte, oltre naturalmente a tutti quegli investimenti di cui necessita il Paese. Pare che il blocco dei licenziamenti venga spostato a giugno, si sposta la notte più in là, ma non si risolve la crisi con un decreto, serve altro, serve un grande sforzo, un New Deal.

Ma, avvertono i sindacati, anche se la ripresa dovesse cominciare domani ci vorranno anni per poter tornare ai livelli ante Covid.

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