Lavoratori poveri, stipendi troppo bassi

Povera Italia, è il caso di dirlo, a leggere l’ultimo rapporto Istat sull’indigenza nel nostro Paese. Tra famiglie in povertà relativa (si entra in questo «segmento» quando si guadagna meno della metà della spesa media nazionale procapite) e povertà assoluta, vale a dire quando si percepisce un reddito insufficiente ad acquistare un paniere di beni e servizi essenziali, arriviamo a 7 milioni e seicentomila persone, più di un settimo della popolazione. Una coppia con due figli dagli 11 ai 17 anni che vive in un Comune di periferia al Nord e non arriva a 1.700 euro mensili è considerato dall’Istat in povertà assoluta, poiché non ce la fa ad arrivare alla fine del mese, la spesa al supermercato e i servizi per i ragazzi (la mensa, lo zaino di scuola, il dizionario, i testi, i vestiti) deve stringere la cinghia e fare sacrifici. Così come lo è una donna single con due figli sotto i 10 anni che ha uno stipendio, sempre nel Settentrione, di 1.370 euro.

Quello della povertà è un dato in crescita, favorito ovviamente dalla pandemia (quello dell’indigenza assoluta in particolare è il più alto dal 2005, cioè da quando si sono istituite le statistiche). Peggiorano le condizioni dei minori che vivono nel disagio e che non hanno la possibilità di crescere con tutto quello che serve per crescere. Situazioni negative che si acuiscono a livello nazionale (da 11,4 per cento a 13,5) e in particolare al Nord (da 10,7 per cento a 14,4) e nel Centro (da 7,2 a 9,5). Le famiglie con minori in povertà assoluta sono oltre 767 mila in Italia. «I poveri non sono seduti sul divano a poltrire», ha detto mercoledì la sottosegretaria al Tesoro Maria Cecilia Guerra nel commentare i dati dell’Istat. Che significa? Significa che stiamo parlando nella stragrande maggioranza dei casi di «working poor», ovvero di gente che lavora (spesso padre e madre) ma che non riesce a percepire un salario sufficiente a sostentarsi dignitosamente, scivolando nella fascia della povertà relativa quando addirittura assoluta (detta anche «estrema»). Come abbiamo visto dagli esempi non è un’ipotesi così irreale.

La questione si intreccia inevitabilmente con il reddito di cittadinanza, che per queste famiglie spesso è un reddito di inclusione, ovvero l’unico modo per assicurare vitto e alloggio a genitori e figli e soprattutto con la grande questione dei salari. Quelli italiani sono mediamente tra i più bassi d’Europa e non garantiscono, come abbiamo detto, a un cittadino su sette di vivere dignitosamente. Se è vero che il reddito di cittadinanza rischia di diventare una misura assistenziale, a volte truffaldina, soprattutto al Sud, quando non addirittura collegata al lavoro nero (ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole, negli anni ’70 in Calabria c’erano decine di migliaia di guardie forestali che anziché stare sull’Aspromonte lavoravano in Germania come operai nelle industrie manifatturiere) è assolutamente sbagliato considerare questa misura come il deterrente per le assunzioni, utilizzandolo come capro espiatorio sociale. In ballo spesso c’è una questione etica di «giusto compenso». Se non si trovano baristi o camerieri non è perché preferiscono il reddito di cittadinanza ma perché non sono pagati abbastanza per uscire dalla fascia di povertà, che dovrebbe essere il minimo per chi lavora. Se infatti torniamo agli esempi fatti, mille e 300 euro sono gli stipendi di un professore di scuola media o di un impiegato e 1.700 euro di un operaio specializzato. Non parliamo di baristi e camerieri stagionali a 500 euro al mese («tanto poi ci sono le mance»). Sono poveri. Sono, per usare una brutta parola che incute rabbia, «bisognosi». Perché?

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