Lavoro agile
e pubblico
Sfide e riforme

«Il lavoro agile è stato forse il più grande esperimento sociale di questa pandemia del nostro Paese, quindi non posso che pensare bene rispetto a questa rivoluzione culturale, personale, legata al lavoro e alle famiglie, che coinvolge l’intera società, le imprese e gli uffici. Ma non pensiamo che sia un toccasana per l’organizzazione del lavoro». Riecco Renato Brunetta, il figlio del venditore di gondole di plastica divenuto economista, un passato socialista, poi folgorato dal Cavaliere, deputato, ministro nel Governo Berlusconi IV alla Pubblica amministrazione, dal 2008 al 2011. Oggi è tornato allo stesso ministero in un momento molto delicato: bisognerà definire le regole per la nuova modalità di lavoro agile, ci sarà da digitalizzare la Pubblica amministrazione e stabilizzare i precari. E soprattutto, ci sarà da rinnovare il contratto dei dipendenti pubblici, con i sindacati che da tempo sono sul piede di guerra (nel dicembre scorso erano scesi in piazza). L’esperienza del 2008 di Brunetta non fu particolarmente fortunata e il ministro brillò più per qualche trovata (come i famosi tornelli) che per i provvedimenti veramente messi in atto.

Ora che ricopre l’incarico nel governo Draghi, a 70 anni, sembra non aver rinunciato alla sua verve politica, a costo di dire cose impopolari. L’ultima è sullo «smart working» che vuol dire come è noto «lavoro agile» e non «lavoro da casa». Un modello di organizzazione del lavoro che si svolge più per obiettivi, che contempla la presenza alternata in sede, a casa o ancora nei luoghi delle missioni di lavoro.

Nell’audizione sulle linee programmatiche alle commissioni Lavoro e Affari costituzionali di Camera e Senato, Brunetta ha sostenuto che non ci può essere un organismo rigido normativo per regolarlo.

Il ministro ha fissato una data per un «tagliando» a questo tipo di esperienza lavorativa vissuta da tutti coloro che hanno un impiego pubblico. «L’emergenza finisce il 30 settembre. Abbiamo tutto il tempo per riflettere con indagini, c’è una commissione tecnica che sta avendo le risposte con un po’ di ritardi (dove e come ha funzionato) e poi con discussione aperta dovremo valorizzare attraverso la contrattazione le migliori esperienze. Non pensiamo che sia il toccasana delle garanzie del lavoro ma è una forma ulteriore su cui abbiamo fatto un apprendimento obbligatorio di massa».

Insomma, in parole povere lo smart working è una conquista sociale importante, certamente il futuro dell’organizzazione del lavoro. Ma dovrà essere normato e selezionato, poiché non tutte le ciambelle sono uscite col buco. «Lo smart working deve essere serio, contrattato, libero, premiato, controllato». Come è noto questo tipo di organizzazione mette definitivamente in soffitta le scrivanie di Fantozzi (ciascuna per ogni dipendente), per lasciare il posto alle cosiddette aree «hub», luoghi dove allacciare il proprio pc e lavorare in gruppo (riunioni, briefing, colloqui...) quando non si lavora da casa. Una specie di terra di nessuno tra abitazione e azienda. Su questo il ministro si dice molto sospettoso. «Non vorrei che dietro quelle buone intenzioni si nascondesse una gigantesca speculazione edilizia o immobiliare». Per Brunetta le aree «hub» non sono la priorità. «Se si vuole lavorare da casa si lavora da casa, altrimenti si va nel posto di lavoro. Capisco l’importanza della “contaminazione”, ma conosco il mio Paese e non vorrei che dietro si nascondesse una speculazione immobiliare». Abbiamo tempo fino al 30 settembre per sapere se si tratta davvero di scelte determinate da una volontà politica o tutto si risolverà in un fuoco di paglia. Quel che è certo è che per i cari vecchi ministeri o uffici postali non è ancora suonata la loro ultima ora.

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