Lavoro e ricerca, cosa può fare un contratto

ATTUALITÀ. Mettetevi per un momento nei panni di una ricercatrice impegnata in un laboratorio scientifico privato italiano.

Per inseguire la vostra passione, per esempio la ricerca di una cura per una rara forma ereditaria di cecità infantile, è probabile che dovrete barcamenarvi per lunghi anni tra una borsa di studio e un assegno di ricerca, passando nel mentre per qualche contratto co.co.co, il tutto all’interno di un percorso di carriera incerto e accidentato, mettendo in conto più di un «buco» nella vostra copertura previdenziale e una notevole difficoltà a essere retribuita durante l’eventuale maternità. La passione, si sa, aiuta a superare molti degli ostacoli che incontriamo; tuttavia condizioni lavorative come quelle sommariamente descritte non favoriscono l’attività di ricerca in Italia, concorrendo tra l’altro al fenomeno tanto deprecato della «fuga dei cervelli». Eppure la capacità di sviluppare nuove idee e nuovi prodotti, sistemi di produzione maggiormente efficienti, la generazione quindi di benessere materiale e salute psico-fisica, passano sempre più spesso per un settore «ricerca e sviluppo» all’altezza della competizione mondiale. Soprattutto in un’Italia alle prese con una duplice transizione, sia digitale che ecologica, oltre che con squilibri demografici cronici e annesse sfide sanitarie.

Per migliorare lo status dei nostri ricercatori, si possono scegliere due approcci diversi, che non si escludono fra loro, uno «quantitativo» e uno «qualitativo». Il primo punta ad aumentare le risorse finanziarie dedicate alla ricerca scientifica. Secondo gli ultimi dati Istat relativi al 2020, l’Italia ha stanziato per la ricerca 25 miliardi di euro in un anno, di cui quasi il 65% (16 miliardi) provengono da imprese e istituzioni private non profit, il restante 35% da istituzioni pubbliche e università. Tanto o poco? La risposta ce la suggerisce l’Ocse, secondo cui il nostro Paese spende in ricerca e sviluppo l’1,48% del proprio Pil, a fronte del 2,21% della Francia e del 3,13% della Germania. Avremmo dunque un ampio margine di miglioramento «quantitativo», se solo imprese e Stato fossero un po’ più lungimiranti e generosi. Nel frattempo, con un dispendio di risorse finanziarie più contenuto, si potrebbero cambiare in meglio molti aspetti «qualitativi» dello status dei nostri ricercatori.

È quello che sta facendo per esempio una delle più importanti realtà non profit della ricerca italiana, la Fondazione Telethon, ente senza scopo di lucro che dal 1990 cerca cure per le malattie rare, che ha varato il primo accordo collettivo nazionale aziendale per il proprio personale dipendente. Grazie a questa intesa, i ricercatori dell’Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli e l’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano vedranno definiti, per la prima volta in modo specifico, principi e fasi della carriera del ricercatore; vedranno aboliti tutti i contratti atipici e precari, sostituiti da «fasi di lavoro anche subordinato a tempo determinato, coerentemente con le caratteristiche peculiari di questa attività lavorativa, caratterizzata da grande mobilità e lavoro per progetti e obiettivi»; avranno un salario minimo crescente per ogni fase del percorso professionale e tutele tipiche del lavoro subordinato (maternità, contributi previdenziali, indennità di malattia, ecc.). Nuove e migliori condizioni lavorative che non sono state introdotte «per decreto», ma sono frutto di un accordo «dal basso», raggiunto grazie all’articolo 8 della legge 148/2011 che consente - entro certi limiti e a precise condizioni - di derogare a leggi e contratti nazionali attraverso accordi sottoscritti a livello aziendale e territoriale.

Qualcuno forse ricorderà le furenti polemiche che tale riforma, voluta dall’allora ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, aveva suscitato in una parte del sindacato, della politica e della stampa: fu accusata di essere contraria alla Costituzione, dipinta come un grimaldello per introdurre «la libertà di licenziare». Dodici anni dopo, invece, col contributo del sindacato Fir Cisl, proprio da un «accordo di prossimità» ex articolo 8 nasce un modello contrattuale virtuoso che - auspicabilmente - potrà essere adottato da altri istituti di ricerca privati non industriali, per colmare deficit di diritti e sostenere un comparto vitale per il futuro della nostra economia.

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