Le pretese dei partiti
Ma Draghi non strappa

Si sentono le onde provocate dal voto sui sindaci, eccome se si sentono. In questo momento tutte le barche si muovono in un vorticoso giro su loro stesse. Ondeggia la barca del governo, scossa dalle continue richieste dei partiti («le bandierine», le chiama il presidente di Confindustria Bonomi) a Draghi e al ministro dell’Economia Franco impegnati a chiudere il cerchio della prossima finanziaria. Beccheggia soprattutto il barcone del centrodestra, colpito da una dura sconfitta che scatena a bordo le ire di tutti contro tutti. E si muovono anche i navigli dei vincitori, convinti adesso di poter alzare la voce persino col presidente del Consiglio. Questa danza dei legni troverà il suo acme in febbraio quando si tratterà di eleggere il (nuovo?) capo dello Stato nella partitissima del settennato per quella che sul serio e non solo sulla carta è diventata - crisi politica dopo crisi politica - la poltrona più importante della Repubblica, l’unica veramente stabile, quella da dove si danno le carte.

Per Draghi la navigazione rischia di farsi più difficile: dovrà utilizzare tutto il suo prestigio, la sua autorevolezza e soprattutto le sue competenze per far ragionare i partiti cercando di ridurre al minimo le loro pretese: vale per i 5 Stelle - in pieno sbandamento dopo il voto che ha certificato la scomparsa elettorale del movimento - per i quali il mantenimento del reddito di cittadinanza è paragonabile ad un certificato di esistenza in vita. E vale per la Lega, anch’essa nevrotizzata dalla doppia sberla ricevuta, che vede in Quota 100 la bandiera da issare a Palazzo Chigi per dimostrare che continua a contare qualcosa. Anche in questo caso Draghi - che non vuole strappare con nessuno e lavora a mediazioni dal minor costo possibile - ha ordinato al ministro Franco di trovare un compromesso accettabile per tutti. Quanto al centrodestra: lì l’incendio è ben difficile da domare. Il vertice a tre dell’altro giorno non è chiaro a cosa sia servito se non a mostrare all’esterno, con sorrisi e pacche sulle spalle a favore di fotografi, che la sconfitta non ha minato l’unità della coalizione. Unità per modo di dire: un pezzo della coalizione sta al governo convintamente, un altro pezzo sta all’opposizione con altrettanto impegno e un terzo sta un po’ al governo e un po’ all’opposizione. Berlusconi, in cambio di un cedimento sulla riforma elettorale, ha ottenuto dagli alleati di essere ancora lui il front-man della partita del Quirinale anche come possibile «candidato di bandiera». Quanto a Salvini e Meloni, continuano a litigare e a rinfacciarsi le scelte sbagliate e gli sgambetti reciproci. Riprova: l’audio di Salvini «rubato» da qualcuno durante una riunione dei dirigenti della Lega in cui lo si sente accusare la Meloni di «rompere le scatole» per «mettere scientemente in difficoltà non il Pd ma il centrodestra al governo». Insomma, l’accusa è di slealtà e spregiudicatezza. A complicare il quadro, la guerra scoppiata dentro Forza Italia tra «filo-governisti» e «filo-sovranisti»: dopo l’elezione del nuovo capogruppo alla Camera sgradito agli uni e voluto dagli altri, i tre ministri azzurri Gelmini, Brunetta e Carfagna sembrano addirittura sul punto di fare fagotto. Destinazione: un nuovo improbabile «Centro» con Renzi, Calenda e qualche altro cane sciolto.

Come si vede, onde lunghe, le più pericolose. Naturalmente non si può escludere che sul fondo, laddove l’acqua è calma, non ci siano dei palombari al lavoro per trovare segretamente l’accordo sul Quirinale. I nomi sono sempre i soliti: gli eterni Prodi e Amato, e poi Casini e Franceschini, ma anche Marta Cartabia. E naturalmente, Mattarella, perfetto per consentire a Draghi di arrivare col governo al 2023. A meno che Draghi stesso non abbia deciso in cuor suo che sul Colle si governa meglio l’Italia di quanto si riesca a fare a Palazzo Chigi.

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