Leadership femminili, la barriera sfondata

Attualità. Il soffitto di cristallo è stato sfondato. Giorgia Meloni premier ed Elly Schlein a capo dell’opposizione sono l’immagine dell’8 marzo. Appunto l’immagine, perché la forza sta nell’impatto, poi il tipo di leadership si misurerà sul campo.

Intanto però la donna che occupa posizioni apicali sfonda un tetto «trasparente», perché culturale. La Costituzione sancisce che tutti possono aspirare al percorso migliore per sé, indipendentemente dal genere. Questo in teoria, perché poi in pratica, tutte lo hanno più o meno sperimentato sulla propria pelle, non è così: ci si imbatte in segregazioni verticali (livelli di carriera irraggiungibili) e orizzontali (settori inaccessibili). Eppure «la donna è mobile», si muove. «Non ci hanno visto arrivare», ha detto Elly Schlein la notte della sua elezione a segretaria del Pd, citando il libro di Lisa Levenstein. «They didn’t see us coming - la storia nascosta del femminismo negli Anni ’90». Titolo poi ripreso dalla stessa Meloni, prima donna a Palazzo Chigi, ieri alla Camera per scoprire la sua foto, aggiunta nella Sala delle donne. I tempi sono maturi anche per una donna al Quirinale, ha fatto intendere la premier. Anche se poi guardando al livello locale, nei Comuni bergamaschi solo 43 sindaci su 243 sono «fasce rosa».

A dimostrare che la strada è in salita. Due figure carismatiche molto diverse - Elly e Giorgia - che però dicono alle bambine di oggi, donne di domani, lo stesso messaggio: porsi e raggiungere degli obiettivi è possibile. Ci vogliono tempo, tenacia, lavoro, pari opportunità, ma certi ruoli non sono appannaggio dei soli uomini. Con fatica e senza scorciatoie, prima o poi si arriva. «Gratificazione differita», la chiamava il professor Giacomo Corna Pellegrini alla Statale di Milano (e lui si occupava di geografia, non di questioni di genere). Certo i processi di cambiamento sono lenti, troppo lenti. Scardinare stereotipi, abbattere ruoli cristallizzati significa agire su sistemi atavici. E poi: fare carriera significa rinunciare a figli e famiglia? Se non c’è un welfare territoriale o flessibilità nell’organizzazione del lavoro, probabile. Oppure: se non si hanno figli si deve essere discriminate al contrario, anche se magari si è «caregiver» di mezza famiglia e azienda? Bastano alcuni dati forniti da Vera Lomazzi, ricercatrice in Sociologia generale del Dipartimento di Scienze aziendali dell’Unibg, per capire che tanto c’è ancora da fare per la parità di genere.

Secondo Eurostat, il 27% della forza lavoro femminile italiana è impiegata nel settore cura ed educazione, mentre solo il 7% della forza lavoro maschile è impiegato in questo ambito. Secondo la stessa fonte, guardando il lavoro a tempo pieno, il tasso di occupazione è molto diverso: lavora full time il 51% degli uomini, contro il 31% di donne. Dando uno sguardo alle «posizioni», membri Cda: donne 39,6%, uomini 60,4%, una stabilizzazione della percentuale raggiunta con le tanto discusse (ma in qualche modo necessarie per invertire la tendenza) «quote di genere». «Spiando» tra le mura domestiche, secondo l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) chi si occupa di cucinare-fare lavori domestici quotidianamente è per l’80% donna, 20% uomo. Il 34%delle donne svolge compiti di cura ogni giorno, contro il 24% degli uomini. Infine, le opinioni degli italiani (fonte: European Values Study). All’affermazione «un bambino in età prescolare soffre se la madre lavora», il 52,7% delle donne e il 51,3% degli uomini dichiara di essere d’accordo. Il 58,2%degli uomini e il 50,1%delle donne afferma inoltre di essere d’accordo con la frase «quello che le donne vogliono realmente è prendersi cura della casa e dei figli». Insomma il riconoscimento del ruolo (sociale, lavorativo, familiare e politico) femminile potrà avvenire solo dentro una società pienamente equa e inclusiva. Allora sarà veramente l’8 marzo.

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