L’energia sociale che serve mettere in campo per la scuola e il lavoro

La battaglia contro l’abbandono scolastico da noi è storica, complici la geografia complicata e la frammentazione amministrativa. I dati comune per comune, elaborati da Regione Lombardia sulla base di quanto disponibile, il censimento 2011, danno per Bergamo capoluogo il 9,3% di uscita precoce dalla scuola della popolazione 15-24 anni con licenza media che non frequenta nessun tipo di corso di istruzione o professionale, contro un 73,98 di diplomati adulti calcolati sull’anagrafe 2015 nella fascia di cittadini fra i 25 e i 64 anni. Per quel che vale (perché i numeri assoluti delle popolazioni comunali sono molto diversi), la percentuale provinciale complessiva con quei dati risulterebbe intorno al 17,6%, con punte largamente superiori al 40% in piccoli comuni montani e intorno al 12-15% nei grandi comuni della pianura.

I dati Istat più recenti su base nazionale parlano di un 13,1% di uscite precoci nel 2020, contro la media Ue del 9,9%. Per la Lombardia il dato è invece dell’ 11,9% e possiamo pensare che la bergamasca sia ormai in linea. Sono comunque dati o vecchi o stimati, a conferma dell’utilità che potrebbe avere un Osservatorio locale. La buona notizia è che, nonostante tutto, sul nostro territorio la disoccupazione, anche giovanile, resta quantitativamente bassa, anche se la maggior parte dei contratti tendono al corto e al leggero. I problemi sul tappeto sono però noti a tutti: difficoltà di incontro fra competenze cercate e offerte, diffidenza delle aziende nei confronti delle ragazze e delle donne che si propongono per ruoli tecnici, salari mediamente più bassi che nel resto d’Europa, una scarsa chiarezza del mercato che scoraggia molti e crea un’atmosfera collosa che oscilla fra autogiustificazione e bassa autostima. Il Covid ha peggiorato dovunque la situazione, ma è servito a far capire che si è arrivati al limite e non si può perdere un’altra generazione.

Qualcuno si sta accorgendo che lavoro e cittadinanza si sorreggono l’un l’altro, perché senza lavoro dignitoso ci sono solo parassiti o servi. E senza il senso di partecipare a una costruzione comune, il lavoro perde significato umano riducendosi a prestazione più o meno monetizzata, transitoria, che non produce per la nazione né crescita reale né identità.

Cioè, si sta scoprendo che il primo articolo della Costituzione ha senso.

In questo quadro di formazione-partecipazione dei giovani, sono nati i Patti educativi di comunità che, riconosciuti e anche sostenuti dal ministero dell’Istruzione a partire dal piano scuola 2020-21, chiedono una messa in rete di tutte le iniziative pubbliche e private, delle scuole ma anche degli enti locali e di ogni altra realtà territoriale, che possano irrobustire la formazione, indebolita dalle limitazioni del Covid, e ridare un senso di prospettiva e di cammino.

Il Patto di comunità presentato ieri dal Comune di Bergamo interpreta queste richieste, chiarendo e mettendo a sistema le tante, e spesso poco conosciute, iniziative realizzate per i ragazzi e i bambini in questi anni. Tuttavia, molto opportunamente, le «carica» tutte sulla voce lavoro, chiedendo contemporaneamente ai bergamaschi di dare il loro contributo di idee e risorse per andare oltre la dimensione dell’orientamento (necessario all’inizio ma spesso alla fine illusorio), verso accompagnamenti più concreti e occasioni vere per costruirsi la vita. Per ora è una sorta di scommessa, che parte dalla consapevolezza di quanta «energia sociale» la città sappia mettere in campo quando vuole. Lo vorrà per i suoi figli e nipoti?

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